Michele Santoro: come la precarietà uccide il giornalismo

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Michele Santoro: come la precarietà uccide il giornalismo

 

 

Mi ha colpito un passaggio dell’intervento di Michele Santoro, ieri sera a Piazza Pulita. Sono solo pochi secondi, ma mi hanno spinto a riflettere su un aspetto, per certi versi decisamente scontato, quasi banale, ma sul quale non mi ero mai soffermato.
 
Tante volte denunciamo, con tutte le nostre forze, come il sistema mediatico sia assolutamente asservito ad una narrazione dominante: siamo al punto che il 25 aprile il PD viene contestato in piazza e Mentana, nel TG delle 20 di La7, definisce i contestatori quali «gruppi antagonisti, gruppi intolleranti, gruppi che evidentemente tagliano la realtà con un’accetta che non ammette posizioni diverse» e condanna le proteste qualificandole come «azioni di disturbo, contestazioni, parole ingiustificabili nei confronti della delegazione del PD che era guidata dal segretario Enrico Letta». In tutta franchezza, penso che il suo teatrino sia ormai decisamente più modesto di quello recitato da quell’Emilio Fede in estasi per l’allora Cavaliere.
 
È impossibile rimanere indifferenti dinanzi a tanta mediocrità nel sistema dell’informazione, a tanta faziosità, al tentativo oscurantista di occultare nella narrazione ufficiale il fatto che possano esserci punti di vista differenti. E ti rispondono che Orsini viene invitato ovunque, che Santoro va da Costanzo a parlare con la Venier e così via. Non è la stessa cosa: un conto è inserire un contraddittorio (quantomeno elementi di complessità, se non di completezza) nel racconto dei fatti di un telegiornale, che si autorappresenta come imparziale e terzo e peraltro gode di un ascolto ampissimo, altra cosa è invitare in un talk uno che la pensa diversamente, nel tentativo di innescare lo scontro e, magari, di accerchiare il malcapitato per ridicolizzarlo. Sono due metodi profondamente differenti.
 
Ma, tornando alle parole di Santoro, mi ha davvero colpito il suo riferimento al precariato (semplifico) nel mondo del giornalismo. In soldoni, Santoro sottolineava come i giovani giornalisti siano di fatto precari, non godano di alcuna assicurazione e stabilità, devono recarsi a loro rischio e pericolo laddove l’atmosfera è più calda, confezionare i loro servizi, e sperare di trovare un editore che li acquisti. Laddove, ça va sans dire, questi ultimi impongono una sola narrazione possibile. Pertanto: o ti pieghi e racconti la favoletta che vogliono ascoltare e diramare, o muori di fame.
 
Certo, non vuole essere una giustificazione: quando si sceglie di fare giornalismo ci si mette al servizio di una causa superiore, quella della verità. Come pure qualcuno potrebbe (giustamente!) farmi osservare che persone come Giorgio Bianchi rischiano il collo per raccontare come stanno davvero le cose, con onestà, per quello che osservano con i propri occhi. Resta tuttavia un aspetto che dobbiamo considerare necessariamente, se vogliamo nutrire un’immagine complessa della realtà e il discorso non riguarda solo la guerra.
 
Voi non avete idea di quante volte mi sia capitato di essere intervistato da collaboratori di giornali importanti, soprattutto in occasione dell’uscita del mio ultimo libro, che a margine della chiacchierata cominciavano a sfogarsi, raccontandomi le loro pene, il fatto di dover fare ore e ore di straordinario non retribuito, molti erano stagisti privi di uno straccio di retribuzione, trattati a pesci in faccia. E me lo dicevano proprio: «non aspettarti che il pezzo abbia un taglio di apprezzamento nei confronti delle tue posizioni: non passerebbe mai!» e poi aggiungevano «continua così, hai ragione tu», rassegnati. La chiosa non mi consolava: mi suscitava pena, compassione.
 
Questo per dire che la narrazione si serve della precarietà e che non tutti hanno la forza per non piegarsi, soprattutto quando hanno famiglia a carico, figli da mandare a scuola, parenti disabili di cui prendersi cura.
 
La precarietà uccide la verità oltre le persone: un motivo in più per combatterla fino alla fine.
 
 
*
Ho scritto “Contro lo smart working”, Laterza 2021 (
 
https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858144442) e “Pretendi il lavoro! L'alienazione ai tempi degli algoritmi”, GOG 2019 (
 
https://www.gogedizioni.it/prodotto/pretendi-il-lavoro/)

Savino Balzano

Savino Balzano

Savino Balzano, nato a Cerignola nel 1987, ha studiato Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Perugia. Autore di "Contro lo Smart Working" (Laterza, 2021) e di "Pretendi il Lavoro! L'alienazione ai tempi degli algoritmi" (GOG, 2019). Sindacalista, si occupa di diritto del lavoro, collabora con diverse riviste.

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