Oltre il mare c'è la Libia

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Oltre il mare c'è la Libia

di Nicolò Cascone*

 

Premessa

 

Questo articolo si propone di ricapitolare brevemente le situazioni in Libia, ovviamente considerando non solo ciò che è passato (e che molti altri articoli hanno trattato più adeguatamente), ma soprattutto le ultime notizie in un contesto purtroppo molto confuso. Infatti ci sono stati in questi ultimi tempi di pandemia numerose novità, sebbene nulla sembri cambiare strutturalmente.

 

Innanzitutto, alcune considerazioni riguardo all’Italia, all’opinione pubblica, alla parzialità dell’informazione e ad altri aspetti della nostra società vanno fatti, perché è importante osservare ciò che accade fuori dai nostri confini, ma lo è altrettanto non trascurare quanto gli eventi esterni influenzino la nostra realtà nazionale, la nostra percezione collettiva e di conseguenza la nostra consapevolezza politica.

Spesso dimentichiamo alcuni basilari, eppure fondamentali: i nostri oblii temporanei del dato geografico sono forte indizio non solo delle nostre sensibilità, ma anche dell’ideologia dominante che quotidianamente ci viene ripetuta nei più svariati mezzi di comunicazione.

 

Il caso della Libia è eclatante, ma non così nuovo e sorprendente: oltre al mare, a sud, nelle coste africane del mediterraneo, tra Tunisia ed Egitto si trova la Libia ed è stata frequentemente toccata dalle cronache nostrane fin dai primi del Novecento. In un primo momento ovviamente ciò è stato dovuto alla proiezione colonialista del Regno d’Italia, che aveva fatto della Libia una sua colonia nel 1911; in un secondo momento, ovvero dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e della monarchia, con un’Italia fortemente segnata dalla tragedia bellica (senza dimenticare che non è stata l’unica né è stata una vittima – questo purtroppo deve essere ricordato frequentemente) e con una Libia consegnata all’influenza inglese, i continui richiami nella cronache hanno chiaramente assunto ben altre sfumature. In altre parole, la Libia non è mai stata distante dall’ombra italiana nell’ultimo secolo – anche quando Gheddafi avviava il processo di decolonizzazione, non sono mai mancati i contatti economici, finanziari e politici. Ciononostante, l’opinione pubblica nostrana continua a guardare alla Libia come una terra lontanissima quasi aliena, talvolta liquidata con la definizione di “terra africana” (da non intendersi come semplice constatazione geografica, bensì come una classificazione dispregiativa), e così facendo può permettersi di chiudere gli occhi, di disinteressarsi. E si potrebbe replicare: “è giusto così, non siamo libici, ci facciamo gli affari nostri e loro si fanno i loro” e come affermazione potrebbe anche essere legittima, in una prima impressione. Il problema, però, è che noi, gli affari “nostri”, li facciamo anche lì – e non sono nemmeno così “nostri”, noi ci limitiamo a difendere quelli di altri e neppure lo sappiamo.

 

Dunque si va a definire questa dinamica: da una parte c’è la percezione, la popolazione italiana in genere, le classi lavoratrici in particolare, che guarda alla Libia con freddo distacco, considerando il Mediterraneo come una sorta di barriera tra due mondi inconciliabili (quindi anche andando a definire un senso di assedio ingiustificato), mentre invece le Alpi sono dei passaggi e l’Europa settentrionale è praticamente equiparata ad una “culla” della nostra civiltà; d’altra parte c’è la realtà, con i suoi movimenti economici, finanziari, sociali, demografici e militari, che ci suggerisce esattamente l’opposto. L’Italia certamente non è uno dei pilastri dell’attuale “civiltà europea”, non lo è nemmeno a livello politico e di rapporti forza, aspetto in cui siamo semmai schiettamente asserviti (anche la nostra esterofilia occidental-centrica è indizio di ciò). Tuttavia l’Italia è presente in Libia e in tutta l’Africa, le “nostre” Eni et similia hanno grandi ramificazioni nel continente – ovviamente anche la Francia, altro paese che costeggia il Mediterraneo, è molto presente (molto più di noi). Allora la pretesa di “farci gli affari nostri”, per poi preoccuparsi ipocritamente dei migranti con lacrime di coccodrillo se muoiono in mare e con grida d’aquila se sopravvivono, non è altro che astensionismo, tacita complicità con uno status quo che vuole la terra africana supina al dominio occidentale con beneficio esclusivo di poche élite politiche e finanziarie.

 

Oltre il mare c’è la Libia. E ci siamo anche noi. E i francesi. E gli inglesi. E i turchi, i russi, gli statunitensi… tutti con i loro obbiettivi (oggettivi o ideologici – che siano giusti o sbagliati è questione da trattare bene in un articolo apposito). Questo dobbiamo ripetercelo tutti e, una volta messo bene in testa, chiederci: che ci stiamo a fare in quelle “terre africane”? Perché allora si potrebbe davvero discutere di questioni concrete, di gestione del potere, di raggiungimento di obiettivi reali, magari anche realizzazione di alcuni nostri propositi.

Temi come lo schieramento dell’Italia nel blocco della Nato e dell’Unione Europea, come l’idea e il progetto di Mediterraneo (vogliamo farne una barriera od un’occasione di contatto? In che modi e con quali obbiettivi?) o come la risoluzione di problemi (e disuguaglianze) di carattere demografico ed ambientale che affligge molte parti del mondo – non solo dell’Africa. Insomma, si può davvero arrivare al nocciolo delle cose.

 

Continuare a seguire gli avvenimenti internazionali, specialmente in casi come quello libico, in cui l’Italia è coinvolta in qualche misura, è un dovere per tutti coloro che si ripromettano un impegno politico, ma anche conveniente per tutti i lavoratori e i cittadini che si vogliano interrogare su cosa fare (e cosa fare dell’Italia), dandosi una qualche risposta un po’ più completa, un po’ più solida.

Noi comunisti in particolare dovremmo essere più ambiziosi, pretendendo di più da noi stessi, sia a livello individuale che collettivo, nello studio e nel tentare di capire, tra l’altro considerando la nostra naturale propensione internazionalista, che dovrebbe essere uno dei più importanti capisaldi di un qualsiasi progetto politico comunista: parliamo di costruire il Socialismo, parliamo di lotta di classe, parliamo di cambiamenti radicali, parliamo di strade difficilissime per cui dobbiamo prepararci in maniera ferrea. Maniera ferrea perché, se oggi toccasse a noi l’occasione per guidare una nuova prospettiva, gli ostacoli che ci verrebbero opposti dai grandi capitali sarebbero tantissimi, le sofferenze che richiederemmo alle classi lavoratrici sarebbero durissime per poter vincere, dunque non si può sorvolare né tollerare l’indifferenza che domina al momento quasi assolutamente.

 

 

La caduta di Gheddafi

 

Uno degli aspetti più eclatanti e allo stesso tempo più trascurati del contesto libico è la caduta di Gheddafi. Tuttavia anche stavolta non c’è nessuna sorpresa, l’Italia vive il dramma di una popolazione acritica, educata e abituata negli ultimi decenni ad assorbire le informazioni senza interesse e senza metodo: ciò che importa (relativamente) è il dramma, la cronaca morbosamente cruenta e dettagliata di fatti oggettivamente superficiali con cui i mass media inducono gli utenti a restare sul canale televisivo (per guardare anche le pubblicità), a comprare i giornali (per leggere anche gli inserti pubblicitari), a cliccare il link del sito (per vedere anche i “cookie” – una pubblicità perfezionata ma con un termine inglese che rende più cool). Quando nell’autunno 2011 Gheddafi è stato ammazzato, non sono mancate le descrizioni sulle sevizie subite prima dell’esecuzione, ha girato un po’ l’internet il filmato di quel triste e barbaro avvenimento, sono passati un po’ di tempi a raccontare quanto fosse più libera e moderna una Libia “alleggerita dal suo tiranno”, poi più nulla. Perché hanno ucciso Gheddafi?

Domanda simile si potrebbe fare risalendo di qualche mese, quando circolavano le prime notizie di rivolte. Perché erano iniziate? Si liquidava il tutto con il discorso delle “primavere arabe”. Perché l’esercito libico reagiva così duramente? Si minimizzava il tutto all’idea del dittatore cattivo che ordinava bombardamenti perché cattivo e dittatore.

Così facendo gli italiani hanno potuto dimenticare in fretta.

E non è cambiato nulla quando, nel 2016, vennero pubblicate migliaia di mail dalla posta elettronica di Hillary Clinton – con grandissimo scandalo ovviamente – in cui c’erano molti riferimenti alla Libia, al perché colpire la Libia. Anche in quel caso (periodo di elezioni presidenziali negli Stati Uniti) si riduce il tutto al pettegolezzo: forse era colpa di hacker russi, forse un gioco meschino di Trump, la “povera” Clinton era stata diffamata… e con questa cronaca da telenovela si è riusciti a distrarre l’opinione pubblica da informazioni (in buona parte conferme di ipotesi che già erano state fatte) davvero incredibili.

In esse si trova spiegazione sulle motivazioni profonde, di come la Francia sia stata in prima linea nell’intervento della Nato in Libia, decisivo per la caduta di Gheddafi.

Va premesso che quasi tutta l’Africa occidentale, ex colonia francese, sia ancora fortemente influenzata dal Franco CFA, che vede le finanze e le politiche monetarie di molti stati africani subordinate (nemmeno troppo implicitamente) alle istituzioni francesi ed ai grandi capitali occidentali: una seria condizione di disuguaglianza, una forte dimostrazione dell’imperialismo che ancora oggi persiste nell’ignoranza e nel disinteresse dei più. Ebbene, la Libia, già da molto tempo impegnata in strategie di tendenza panafricanista (in cui, insomma, costruire una maggiore collaborazione tra stati africani, in un contesto di reciproca convenienza e di emancipazione dal monopolio politico-finanziario occidentale), stava avanzando la proposta di una moneta unica africana per fini commerciali e finanziari, capace di scalzare il Franco CFA, valuta usata in molti paesi africani ma completamente controllato dalla Francia. A sostegno di un progetto tanto ambizioso Gheddafi poteva offrire molte tonnellate di lingotti d’oro del tesoro libico, perciò l’idea non era pura astrazione e molti osservavano, alcuni positivamente incuriositi, altri – francesi in primis, ma non solo – fortemente preoccupati nel vedere l’assetto imperialista occidentale intaccato.

Oltre a ciò ovviamente vi era (e vi è ancora) il fatto che la Libia abbia ampie riserve di petrolio ed anche un discreto settore di raffinazione, che ne faceva un esportatore con grande partecipazione dell’Eni nostrana. Dunque i francesi (i grandi capitali privati, lo stato al loro seguito) volevano con intento schiettamente imperialista inserirsi ed ottenere buona parte di quella fonte di profitto.

Si trattava di “prendere due piccioni con una fava”: eliminare una potenziale minaccia alla loro egemonia monetaria nell’Africa occidentale e magari ampliare le attività francesi di estrazione del petrolio a danno dei concorrenti.

Tuttavia bisogna evitare di gridare al lupo indicando solo la Francia, ché l’intervento è stato della Nato, con forte partecipazione statunitense, e molti finanziamenti (e molte armi) ai ribelli sono giunti dalla Penisola Arabica, più precisamente dal Qatar, piccolo Stato che è stato grande protagonista delle “primavere arabe”, godendo di una fitta rete di informazione, di propaganda (Al Jazeera è il canale arabo più importante del mondo ed ha sede proprio in Qatar), di contatti con organizzazioni di massa come i Fratelli Mussulmani. Gheddafi, per le sue posizioni da sempre socialistiche (la Libia era in effetti un singolarissimo caso istituzionale, che aveva a modo suo cercato di applicare forme di Socialismo arabo con un successo rilevante) e per le sue tendenze panafricaniste dell’ultimo periodo, che entrambe contribuivano ad allontanare quelle terre dall’influenza dei vari emiri, aveva sempre avversato tanto i fondamentalisti (legati ai sauditi) quanto i Fratelli Mussulmani.

In quel 2011 si concretizzava una delicata convergenza di interessi tra potenze occidentali e quelle della Penisola Araba in una grande operazione di destabilizzazione nelle regioni di lingua araba, le cosiddette “primavere arabe”, volte a rinnovare e rafforzare (e in un certo senso spartire) il dominio su di esse. La Libia rientra in questo grande contesto – anzi ne è uno dei fulcri per la sua importanza strategica.

 

 

Sotto i nostri occhi

 

Gli eventi sono relativamente recenti: dieci anni fa. Allora abbiamo assistito ai fatti con un misto di disinteresse e di simpatia per i ribelli, indotta da un apparato mediatico spudoratamente schierato e disposto a diffondere narrazioni distorte della realtà e gravissime omissioni: un altro eccezionale esempio di propaganda occidentale.

Ed anche quando è apparso chiaro che l’Italia ci rimetteva in tutti i sensi, non solo lo stato si è reso complice del suo stesso indebolimento geopolitico (l’Eni ha una certa presenza statale), ma persino i grandi capitali privati nostrani hanno applaudito, dimostrando di essere pienamente integrati negli assetti politici ed economici capitalistici dell’Unione Europea, che troppo spesso, con la sua insistente approvazione per l’intervento della Nato, viene oggi dimenticata e considerata debole in politica estera: quando la Nato lo richiede, l’Ue sa essere solida quanto necessario. Queste annotazioni vanno sempre fatte, in risposta a certi anticomunisti più o meno dichiarati che si proclamano i veri difensori del popolo italiano: nemmeno nei loro criteri capitalistici costoro hanno allora portato avanti una difesa degli interessi italiani, anzi sono stati ben zitti nel concedere una buona parte di essi agli altri membri dell’Unione Europea e della Nato – figurarsi a parlare di “interessi del popolo”!

A proposito, non si può non rammentare come tanta cecità geopolitica sia stata caratteristica anche delle sinistre più “estreme”: Rifondazione Comunista, per esempio, si è sprecata a sostenere pienamente la narrazione propagandistica occidentale, che raffigurava con semplicità quasi infantile la contrapposizione tra un Gheddafi cattivo e folle e dei ribelli genuinamente buoni, spinti da chissà quali intenti nobili di democrazia e di lotta contro il tiranno. Altra piccola – ma a modo suo indicativa – annotazione che bisogna fare.

E cosa resta? Dopo dieci anni, in un mondo sempre più digitale, dove le informazioni – vere e false – abbondano, cosa resta? Un popolo, quello italiano come tanti altri, incosciente, anche di fronte ad una realtà che mostra sempre più palesemente le dinamiche pericolose del capitalismo.

Gheddafi è stato ammazzato per imperialismo, non per giustizia. La Libia è stata gettata nel caos e nella violenza per profitto, non per sfortuna. Ricordare ciò è un dovere parimenti alla memoria delle barbarie nazifasciste nella Seconda Guerra Mondiale: l’ingiustizia non è cosa del passato, è metodo quotidiano, contro cui i comunisti devono combattere quotidianamente.

 

 

A proposito di quotidiano: la Libia oggi

 

La Libia, a metà di questo 2021, continua ad essere frammentata, dominata dall’anarchia, alla mercé di conflitti asimmetrici e di interessi economici sempre più simili alla rapina nella loro attuazione. Dopo dieci anni, ancora si combatte per determinare dietro a quale padrone la Libia “libera” dovrà andare.

Apparentemente si potrebbe pensare che poco o nulla sia cambiato negli ultimi dieci anni: da una parte si ha un governo della Cirenaica (quello che solitamente viene indicato come “la Libia di Haftar”) che controlla gran parte dei territori libici, contando sulla collaborazione di molte milizie locali; dall’altra si ha il governo della Tripolitania, che tecnicamente è riconosciuto dall’Onu, ma nei fatti ha un controllo molto precario ed è principalmente circostanziato alla città di Tripoli.

La guerra è latente, s’infiamma e si quieta frequentemente, data la scarsa organizzazione delle forze armate schierate, oltre ad una centralizzazione dei coordinamenti abbastanza precaria, infine considerando l’estrema eterogeneità: milizie (talvolta di autodifesa, talvolta integrate in qualche modo negli eserciti, talvolta degenerate in organizzazioni criminali), mercenari e pochissimi soldati regolari si contrappongono in azioni di bassa intensità.

La comunità internazionale resta a guardare – e non è necessariamente una cosa negativa – impotente di fronte ad una situazione davvero complicata. I tentativi di dialogo tra le parti ovviamente non mancano, ma è difficile credere in una soluzione diplomatica, finché grandi capitali contrapposti tra loro non sapranno decidersi sulle quote di spartizione della ricchezza libica. Il popolo libico e la sua classe lavoratrice sono annichiliti politicamente, privi di peso e di voce in capitolo. Il quadro è sconfortante, ancora di più se si pensa alla soluzione che sembra essere più probabile e prossima.

Infatti in quest’ultimo anno si sono evolute certe situazioni: con la guerra in Siria ormai sospesa, molte risorse prima destinate in Medio Oriente vengono gradualmente dirottate in Libia. Si prenda ad esempio – quello più lampante quantomeno – della Turchia, che molto rumorosamente ha fatto irruzione nel conflitto libico trasferendo mercenari siriani (gli stessi che i giornalisti nostrani etichettavano come “ribelli moderati” contro Assad) nella Tripolitania e trattando col governo locale lo schieramento di droni e sistemi antiaerei contro l’aviazione del generale Haftar. D’altra parte egiziani e mercenari russi si mobilitano per rafforzare l’esercito cirenaico, che sembra anch’esso ormai sfiancato al punto da non riuscire più a condurre offensive di larga scala, mentre la Francia cerca di tenere i piedi un po’ dappertutto, sperando di confermare la sua egemonia attraverso una riconciliazione nazionale libica sotto sua protezione.

In parole semplici, proprio quando il conflitto sembrava essersi sgonfiato con un ultima offensiva fallita di Haftar (attenzione, però, che ciò non implica che fosse conseguente una soluzione definitiva e politica), i fronti sono stati intensamente rimpinguati di “risorse” (umane e materiali) fresche, al fine di tenere pronta ed incombente una nuova prospettiva bellica. Dunque lo stallo odierno, in Libia, non è lo stesso di qualche mese fa: non è più una tregua del logoramento, ma l’attesa di un’eventuale escalation. È ancora presto per poter prevedere le conseguenze, ma si possono fare ipotesi sul presente: non è da escludere che si stia assistendo ad una diplomazia “delle cannoniere”, in cui si rivitalizza il potenziale bellico e distruttivo della guerra civile libica affinché i grandi capitali coinvolti definiscano le quote della spartizione ed i rapporti di forza. Quindi l’obbiettivo non è esclusivamente e necessariamente quello di alimentare il conflitto e trarre da esso profitto, ma anche probabilmente un fenomeno di deterrenza tra le parti con cui indirizzare gli accordi di pace – se mai giungeranno.

 

 

I rapporti di forza in Libia: i “nuovi arrivati” turchi e russi

 

L’irruzione turca e la presenza di mercenari russi sono solo le ultime novità nel complesso quadro di rapporti di forza in Libia, e vanno in parte spiegati parallelamente al contesto siriano ed alle tensioni nel Caucaso.

Da una parte, la Turchia, per quanto la si voglia raccontare come paese diviso, per quanto la si voglia descrivere in contrapposizione con l’Unione Europea, per quanto si voglia dire male delle strategie geopolitiche di Erdo?an e allo stesso tempo avere ottime collaborazioni militari nel quadro della Nato, gode di un momentum dal potenziale impressionante. Potenziale su cui molto probabilmente il capitalismo occidentale spera di contare in chiave antirussa ed anticinese (ma questo aspetto verrà eventualmente approfondito in un altro articolo). La sua crescente influenza sul governo di Tripoli (che tuttavia è ancora lontano dall’essere predominante) è anche una naturale conseguenza della sua proiezione estera, che molti riassumono come “politica neo-ottomana” e che potrebbe essere anche vera, ma solo in parte. Il protagonismo in Siria, nelle acque circostanti a Cipro (dove è in diretto scontro con l’Eni) dove si trovano giacimenti di gas, in Libia per l’appunto, nel Caucaso… non è semplicemente un “uscire dai propri confini”, non si tratta dell’esondazione di un fiume, quando l’acqua si spande ovunque sua possibile semplicemente perché possibile, bensì ha una sua logica, che non possiamo pretendere conoscere nei dettagli, ma che possiamo tentare di individuare a grandi linee.

La scelta di operare nel Mediterraneo è per i turchi obbligata, in un certo senso.

Il Mar Nero è già sufficientemente sottoposto a loro potere di ricatto, poiché controllano lo stretto del Bosforo, inoltre l’intervento diretto in un mare che costeggia la Russia richiede una certa cautela, per evitare reazioni immediate e sconvenienti: i turchi hanno optato, anche grazie alla protezione della Nato, di avviare una operazione di influenza attraverso il rafforzamento dei rapporti con l’Ucraina, a livello finanziario, commerciale e militare. Va ricordato che altri paesi che costeggiano il Marocco Nero, come Romania e Bulgaria, al momento non hanno particolari problemi a collaborare con i turchi in una situazione di concertazione della Nato, ma di fronte ad una Turchia eccessivamente assertiva nella regione potrebbero mostrare sofferenze e larghe parti della società potrebbero rapidamente assumere simpatie per la Russia. Ciò è normale: stiamo parlando di paesi storicamente filorussi, considerando l’ampio contributo della Russia nell’indipendenza di questi – proprio dal giogo turco – poco più di un secolo fa. Quindi il “gioco non vale la candela”, peraltro non troppo lontano si trova una Grecia in forte attrito (e anch’essa con una certa latenza filorussa).

Ma la situazione satura del Mar Nero non è l’unica spiegazione per cui rivolgersi al Mediterraneo: non solo in quest’ultimo c’è una maggiore instabilità in cui poter inserirsi, ma c’è soprattutto una posizione strategica per l’influenza del settore energetico, poiché nel Mediterraneo si trovano giacimenti di gas e gasdotti, molti paesi che vi costeggiano sono importantissimi collegamenti con l’Africa, l'Asia meridionale e l’Europa occidentale. La Turchia in sé non ha altrettante risorse e opportunità di contatto per sua stessa posizione geografica e politica, dunque quello che pare come avventurismo mediterraneo è in realtà una opzione con cui compensare alle lacune interne, alla strutturale mancanza di risorse energetiche capace di sostenere lo sforzo di uno stato in espansione, che Erdo?an reputa preferibile al solo commercio ed ai vincoli che esso comporta. La Libia è un ottimo bersaglio: instabile, isolata, geograficamente strategica (contatto con il Mediterraneo occidentale e con l'Africa), ricca di risorse, bisognosa di sostegno militare e logistico che molti altri paesi offrono con estrema avarizia.

Discorso con simili dinamiche, ma non uguale, è valso per la Siria – sappiamo però tutti com’è andata a finire, a grandi linee (anche se forse è sbagliato credere che sia finita, forse si è conclusa solo una prima cruentissima fase).

Se i turchi operano in una prospettiva di espansione, i russi invece agiscono in un principio di contenimento dei primi, proprio a causa di quel potenziale geopolitico turco, di cui è accennato sopra, che (se lasciato crescere indiscriminatamente) potrebbe minacciare terribilmente la stessa integrità della Federazione Russa, com’è probabilmente auspicio occidentale.

La presenza in Libia è quindi innanzitutto in chiave antiturca, ma non esclusivamente.

I governi di Putin hanno parzialmente ripreso l’interesse sovietico per il continente africano e lo stanno portando avanti con importanti successi, poiché molti paesi africani stanno rafforzando i contatti con la Russia. Mentre in Africa occidentale molti interessi russi sono contenuti da un dominio francese fondato su un interventismo impietoso (basti pensare alle situazioni di profonda crisi che stanno colpendo Mali e Ciad in questi ultimi mesi, dove l’instabilità politica è tale che i militari affermano un’influenza sempre più diretta con tacito assenso dalla Francia); in Africa orientale suona ben altra musica: il Regno Unito fatica visibilmente a mantenere la sua egemonia nelle sue ex colonie, i paesi del Corno d’Africa e molti altri dal Lago Vittoria fino alla foce del Nilo, anche grazie al crescente commercio con la Cina, riescono sempre più ad operare una condotta geopolitica multipolare in cui i russi possono prendere parte. Le relazioni con l’Egitto, per esempio, sono buone e convenienti, dunque anche a sostegno di questi la presenza di mercenari russi in Libia può servire: indirettamente si aiuta gli egiziani a tenere sicuri i confini, così ottenendo in cambio maggiore riconoscimento e fiducia.

Tali operazioni, a rigore di logica, sarebbero da definire rischiose, “sul filo del rasoio”, ma è in questo che la contemporaneità (dove, tra l’altro, la comunità internazionale è più assente che presente) riesce come sempre a trovare una soluzione per aggirare tutta una serie di formalità, che in un mondo migliore potrebbero essere effettivamente (e non solo nominalmente) “leggi internazionali”: i mercenari. Una soluzione vecchia come il mondo, in realtà, ma perfezionata dalle dinamiche di profitto finanziario attuale, che gli statunitensi per primi hanno elaborato con il complesso sistema di compagnie di “contractors” (mercenari in inglese – perché fa più cool). Anche i russi, come tutti gli altri, hanno capito l’antifona e rispondono per le rime: la Compagnia Wagner gestisce la presenza di forze russe armate, dunque non si tratta né di eserciti, né di milizie, né di qualunque altra cosa che possa dirsi istituzionale, bensì un’azienda privata dove datori di lavoro assegnano un mestiere a chi lo cerca.

Questa presenza russa certamente è vista con terribile sospetto da molti paesi, specialmente Stati Uniti ed Unione Europea, perché proprio in questi ultimi mesi è in corso uno scontro per impedire la costruzione del North Stream 2 (gasdotto che rafforzerebbe il flusso di gas russo importato in Europa) e la Siria è sopravvissuta all’assalto imperialista occidentale. E si potrebbe chiedere: tutto ciò cosa c’entra? Molto. Il punto è che l’Ue sta cercando vie alternative per rifornirsi di gas, possibilmente evitando di dar troppo spazio alla Turchia, e la Siria poteva essere una buona zona in cui costruire un gasdotto “più europeista”, ma il fatto che la Repubblica Araba Siriana sia rimasta in piedi, per di più filorussa e filoiraniana, riduce la potenzialità del progetto, perché rende più improbabile che questa nuova via possa essere sotto stretto dominio occidentale. E questo “inconveniente” è stato frutto innanzitutto degli interventi iraniani e russi (attenzione, val la pena ricordarlo: in conformità alle leggi internazionali) nella guerra in Siria.

Dunque, per questo ed altri motivi (che possono essere riassunti come classici conflitti di influenza) la presenza russa in Libia è vista in continuità con altre azioni ed è percepita, in un certo senso, come uno sgarbo geopolitico.

Sgarbo geopolitico – mi si permetta un breve giudizio politico per mettere in chiaro le cose – che è benvenuto, se rallenta ed ostacola l’assetto imperialista euro-atlantico, che troppo pericolosamente e spudoratamente mira alla massima espansione, alla massima sottomissione ed al massimo sfruttamento di risorse altrui per continuare uno sviluppo unilaterale (ovvero un occidente che si arricchisce impoverendo il resto del mondo), che in un modo o nell’altro ormai si protrae da secoli.

Ciononostante, non è poi così scontato che tutti i membri dell’Unione Europea siano ugualmente motivati a “cacciare via i russi” dal continente africano.

 

 

I rapporti di forza in Libia: i francesi

 

Potrà sembrare strano, ma non è da escludere che i francesi siano invece abbastanza tolleranti rispetto alla presenza russa in Libia e nell’Africa in genere. Se, da una parte, essi potrebbero essere sospettosi e guardinghi soprattutto in quelle regioni africane in cui maggiormente hanno dominio, d’altra parte, ci sono altri protagonisti che sono motivo di maggiore timore: i turchi.

La Francia da molto tempo soffre di un graduale indebolimento della sua egemonia classica nelle ex colonie, ultimamente scricchiola rumorosamente e le toppe messe dagli statunitensi e dagli inglesi non sembrano aver risolto molto. Non mancano i conflitti attorno al Sahara, le violenze decennali nelle montagne algerine, le guerre aperte in Mali degli ultimi anni, le tensioni in Burkina Faso ed in Ciad… moltissimi esempi di instabilità che hanno visto un intervento militare francese più o meno diretto.

In questo contesto, la Turchia sembra avere una potenziale (e sottolineo potenziale, poiché al momento non è pienamente realizzata) influenza nei paesi dell’Africa occidentale, dove comunità islamiche (religione maggioritaria di quelle regioni) tradizionalmente filoarabe si stanno ora frammentando in varie tendenze – una di queste è una simpatia per la Turchia, soprattutto se confrontata con la Francia e l’Occidente.

Considerando poi che la presenza turca in Libia è espressa soprattutto con il dispiegamento di mercenari arabi, con trascorsi di ribellione ad uno stato laico e con una vocazione apertamente religiosa (islamica sunnita), i richiami e le preoccupazioni occidentali potrebbero essere stimolati. Un simile potenziale è impensabile per i russi, i quali non sembrano nemmeno coltivare ambizioni tanto grandi al riguardo.

L’interesse francese, in breve, potrebbe vedere qualche concessione temporanea ai russi come prezzo da pagare in una classica strategia del “divide et impera”, nella speranza di metterli in competizione con i turchi, mantenendo entrambi più deboli. Oltre a ciò, che è più ipotetico, ci sono indizi più evidenti, come il coinvolgimento di paesi amici nella repressione di tutti quei moti antifrancesi che negli ultimi decenni stanno riscaldando l’intera Africa occidentale: l’Italia sembra al momento il partner ideale, con una condotta geopolitica caotica e priva di coerenza, sempre più palesemente subordinata ad altre potenze occidentali fin dai primi anni Novanta (o, con altra prospettiva, fin da Mani Pulite e le sue conseguenze politiche), quindi incapace di minacciare l’egemonia francese.

È notizia abbastanza ma non troppo recente, nonostante la “timidezza” (per usare un eufemismo) dei mass media nostrani nel riportarla, che i francesi stiano chiedendo la presenza di contingenti militari italiani in Sahel, in Mali soprattutto, per essere coinvolti in operazioni internazionali (coordinate dai francesi) di antiterrorismo che quasi sicuramente dureranno molti anni. È tristemente curioso osservare la totale indifferenza per gli interessi geostrategici italiani – persino in criteri capitalistici – da parte della nostra classe dirigente politica e economico-finanziaria, ma anche (e ancor più colpevolmente) da parte del popolo italiano, nelle sue varie classi sociali.

Dunque i francesi potrebbero avere una certa premura – e pignoleria – per le attività italiane in Libia. Sarà benvenuta la lunga influenza italiana in territorio libico, finché l’Italia resterà apertamente subordinata alla Nato (e, in seconda battuta, all’Unione Europea), e sarà certamente un argine ai turchi molto più affidabile di quanto non sia un’eventuale “cessione temporanea di quote di potere” ai russi. Allora non deve sorprendere che Draghi, uomo forte dell’Unione Europea, rievochi qualche parvenza di interventismo italiano a Tripoli, d’altronde, per quanto non sembri, la potenza dell’Eni in Libia non è stata completamente annichilita, come speravano i grandi capitali francesi, ad esempio la Total. I francesi, seppur certamente desiderosi di quelle quote ancora rimaste al capitale italiano, non hanno al momento né la forza, né la convenienza, né l’urgenza per poter destabilizzare ulteriormente la situazione ed eventualmente vedersi contro resistenze da parte di Eni.

 

 

I rapporti di forza in Libia: gli italiani incerti ed ingombranti

 

L’Italia tentenna, almeno all’apparenza, senza una strategia propria. Anche durante la Guerra Fredda la condotta geopolitica nostrana in Africa e nel Medio Oriente è sempre stata molto timida nei modi, con toni bassi, ma con una certa concretezza, all’ombra del blocco occidentale e dei grandi capitali francesi, inglesi e statunitensi. Purtroppo molti hanno già dimenticato, o non sanno, che l’Italia è stata bastonata quando ha tentato una politica energetica e commerciale più assertiva ed autonoma: la morte di Mattei insegna (e converrebbe ripassare un attimo quella storia), alla faccia della “libertà” e della “democrazia” che molti, tanto “patrioti” quanto americanofili dichiarati, elogiano fideisticamente (o in malafede).

E certamente Draghi è una garanzia di questa subordinazione, soprattutto considerando come il caos che ha regnato la politica estera italiana durante i governi Conte abbia (involontariamente, verrebbe da pensare, analizzando nel complesso) portato ad un’azione piuttosto ardita e autonoma, ovvero la sottoscrizione al progetto della Nuova Via della Seta.

L’Italia di Draghi è sempre incerta, ma diversamente: non si tratta più dell’incertezza “a tentoni” dei governi precedenti, ma di quella calcolata, perfettamente integrata in una strategia transnazionale di puro ed esclusivo perseguimento degli interessi capitalistici occidentali, euro-atlantici.

Viene da aggiungere che non sia un semplice caso l’attenzione posta al dramma delle migrazioni, delle condizioni terribili di schiavismo a cui si sottopongono migliaia di esseri umani in Libia, delle morti in mare: si fa tanto dramma, anche a livello istituzionale, ma nessuna informazione viene diffusa su un’analisi concreta e su un’idea – anche solo a grandi linee – di un cambiamento, che sia effettivamente lotta strutturale alle ingiustizie (guerre e miseria, certo, ma che non nascono dal nulla, sono frutti di dinamiche di sfruttamento capitalistico). Non si fa perché semplicemente non c’è piano di cambiamento, se non nel lunghissimo periodo, se non mantenendo e rinnovando le radici dei fenomeni che oggi come ieri sono la causa di tante sofferenze.

Tutto ciò è possibile anche grazie alla scarsissima consapevolezza politica delle varie classi sociali, anche di buona parte di quelle dominanti, in Italia. La mancanza di coscienza di classe è una causa fondamentale di questa condizione, soprattutto nelle classi lavoratrici, nelle quali noi comunisti abbiamo fallito finora (nonostante la potenzialità di alcuni decenni fa) nel nostro intento. Paghiamo oggi doppiamente: la mancanza di un forte Partito Comunista, marxista-leninista, significa una indifferenza dominante tra i lavoratori italiani in patria e una garanzia di più solida oppressione dei lavoratori di paesi “sottosviluppati” (o meglio, “sovrasfruttati”), perché i nostri compatrioti militari agiscono per conto altrui senza problemi, senza dubbi, senza ostacoli da parte di tutti noi.

 

 

I rapporti di forza in Libia: gli “spettatori” anglosassoni

 

In conclusione, vale la pena di ricordare gli statunitensi e gli inglesi. Costoro sono oggi meno protagonisti in Libia, poiché questa è “roba francese”, in un certo senso.

Tuttavia è molto probabile che siano molto preoccupati dalla presenza di turchi e russi (anche per i motivi di cui sopra). Ma ciò va riletto anche nel suo quadro, considerando quali siano gli auspici che guidano la strategia anglosassone.

Il fatto che i russi siano attivi in Africa è problematico, per inglesi e statunitensi, in maniera intrinseca: la Russia deve essere contenuta in ogni senso, le deve essere negata qualsiasi occasione di proiezione esterna, affinché sia più debole possibile quando arriverà una prima resa dei conti (ovvero, la fine dei governi di Putin, che è un essere umano, non è immortale).

Sempre in questa prospettiva, una Turchia proiettata verso sud-ovest è un rischio deleterio e non necessario: è interesse dell’Occidente rivolgere i turchi a est, contro l’Iran, la Russia e (in ultima ma più importante istanza) la Cina. Si potrebbe fare un parallelismo con la Germania nazista: negli anni Trenta non mancavano correnti politiche occidentali che speravano di indirizzare l’espansionismo nazista contro l’Unione Sovietica. Allo stesso modo fanno oggi con la Turchia (attenzione, però, non si vuole implicare che questa sia nazista come la Germania di quei tempi), a prescindere che il governo sia di Erdo?an o di qualcun altro.

Allora va ipotizzato che inglesi e statunitensi, che possono fare pressioni in quanto paesi leader nella Nato, stiano cercando di integrare i mercenari turchi in un quadro di controllo operativo congiunto: insomma, evitare che la Turchia faccia quel che preferisce senza informare i suoi alleati, o – peggio ancora – che possa essere tentata di spartirsi la Libia con gli egiziani (che le sono rivali alleati e che, come scritto sopra, sono abbastanza autonomi e godono anche di un sostegno russo) a scapito dei francesi e degli italiani.

La cristallizzazione della crisi libica è anche un modo per meglio controllare la situazione e per pianificare meglio una soluzione, che per inglesi e statunitensi deve: contenere i russi, soddisfare turchi e francesi senza metter gli uni contro gli altri, magari spingere tutti i paesi della Nato ed altri alleati più incerti (come gli emiri arabi e gli israeliani) a rivolgere le loro attenzioni a Oriente.

 

Ciò significa che non mancano le possibilità per “mettere una pietra sopra” la Libia, è solo necessario un po’ di tempo per le contrattazioni.

Una cosa è certa: non si prevede una Libia effettivamente libera e sovrana – quella è morta con Gheddafi.

*Cumpanis

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