Posizione finanziaria Usa: Lenin "rovesciato"

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Posizione finanziaria Usa: Lenin "rovesciato"

 

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico 

 

Tra le sue non poche intuizioni geniali avute da Lenin, una rilevanza particolare va riconosciuta a quella che attribuiva all’esportazione dei capitali un ruolo di gran lunga più decisivo rispetto all’esportazione delle merci nell’ambito della dinamica imperialistica.

All’epoca, l’osservazione risultava indubbiamente corretta. Tutte le principali potenze, sia di consolidata (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio) che di nuova (Stati Uniti, Germania, Giappone) vocazione imperialista, mantenevano rigidi controlli sui movimenti di capitale per limitare l’accesso interno ai concorrenti. Convogliavano quindi i propri capitali in eccesso verso colonie, semi-colonie e Paesi formalmente indipendenti ma sprovvisti della forza per ergersi a potenziali competitori, che remuneravano gli investimenti stranieri sotto forma di rendimenti e dividenti elevati.

La Russia zarista rientrava indubbiamente nella categoria, al pari degli Stati Uniti dei decenni precedenti, quando percepivano enormi flussi di capitale britannici occupando una posizione rigorosamente debitoria fino alla Prima Guerra Mondiale. La cui deflagrazione comportò un rapido rovesciamento dei rapporti transatlantici, consacrando gli Usa come i maggiori esportatori di capitali al mondo. Una condizione che il Paese ha preservato per circa settant’anni. Ancora nel 1980, gli Stati Uniti esibivano una posizione finanziaria netta – che registra i flussi di capitale transfrontalieri (sotto forma di investimenti diretti, di portafoglio e di altro genere) di ciascun Paese – positiva per 297 miliardi di dollari: un ammontare superiore a quella ricavabile dalla sommatoria delle posizioni finanziarie nette di tutti gli altri Paesi del mondo.

Ad appena nove anni di distanza, tuttavia, la posizione finanziaria netta degli Stati Uniti passò in negativo per la prima volta dal 1914 (per un ammontare di 33,7 miliardi di dollari), inaugurando un processo di appesantimento progressivo delle passività che è tutt’ora in corso. Nel 1991, con una posizione negativa per 243 miliardi di dollari, gli Stati si affermarono come principali debitori netti su scala globale, e da allora hanno accumulato crescente distacco rispetto a ogni altro Paese. Alla fine del primo trimestre del 2024, rivelano i dati pubblicati dal Bureau of Economic Analysis lo scorso 26 giugno, gli Stati Uniti accusavano una posizione finanziaria netta negativa per 21,28 trilioni di dollari, a fronte dei 16,93 trilioni registrati nel quarto trimestre 2023. Un ammontare assai cospicuo, pari al 72,5% del Pil ed equivalente alla somma delle posizioni finanziarie nette di tutti i Paesi debitori del mondo. In Europa, soltanto Grecia (-140,5% del Pil), Irlanda (-105,9% del Pil) e Cipro (-96,6% del Pil) registrano performance peggiori, ma si tratta di economie di dimensioni ridotte, mentre quella statunitense risulta a tutt’oggi la più grande su scala globale se misurata attraverso il parametro del Pil nominale.

Sotto molti aspetti, la posizione finanziaria netta negativa degli Stati Uniti si riflette negli attivi strutturali accumulati dal gruppo dei creditori, che riunisce Paesi come Cina, Giappone, Germania, Corea del Sud, Canada, Svizzera, Arabia Saudita e Russia. Parte assai rilevanti delle nazioni creditrici annovera gli Stati Uniti come destinazione dominante delle proprie esportazioni. Il discorso si applica soprattutto a Cina, Giappone e Germania, dotati di un saldo commerciale e finanziario pesantemente positivo con gli Stati Uniti, nonostante i rendimenti garantiti da questi ultimi agli stranieri risulti di gran lunga inferiore rispetto a quelli che gli investitori statunitensi ricavano dalle loro attività all’estero.

Lo certificano il saldo dei redditi internazionali da capitale, che per gli Stati Uniti è negativo per una quota compresa tra il 2 e il 2,5% del Pil, e la stessa posizione finanziaria netta degli Usa, che trimestre dopo trimestre vede le voci passive sovrastare in maniera sempre più netta quelle attive. Nel dicembre 2023, le attività estere degli Stati Uniti erano cresciute su base annua da 31.44 a 34,39 trilioni di dollari (+2,95 trilioni) ; le passività, da 47,70 a 54,25 trilioni (+6,55 trilioni).

Simultaneamente, la media trimestrale si è attestata per il 2023 a quota 98,5 miliardi per quanto concerne gli investimenti diretti in entrata, a 303,2 miliardi in riferimento agli investimenti di portafoglio e a 62,6 miliardi relativamente alle altre forme di investimento (essenzialmente prestiti e mutui). Nell’intervallo compreso tra il 2020 e il 2023, le tre voci avevano registrato una media trimestrale pari (rispettivamente) a 91,8, 237 e 74, 8 miliardi. In quello compreso tra il 2010 e il 2019, si scende (rispettivamente) a 80,2, 125 e 32 miliardi. Si registra in altre parole una tendenza all’incremento dei flussi di capitale straniero negli Stati Uniti, con particolare riferimento agli investimenti di portafoglio (poco meno del 65% del totale) dati dagli acquisti stranieri di titoli del Tesoro, obbligazioni societarie e azioni al di sotto del 10% del capitale complessivo.

Nel 2023 si è assistito a una radicalizzazione di questo processo, trainata soprattutto dagli alleati internazionali degli Stati Uniti, vale a dire Giappone, Corea del Sud, Australia e Paesi membri dell’Unione Europea. A partire dalla Germania, il cui clima degli investimenti è stato letteralmente devastato dalle implicazioni del conflitto russo-ucraino. Risultato: se prima del febbraio 2022 avevano manifestato un certo livello di bidirezionalità, con l’adozione delle sanzioni, la recisione del legame energetico con la Federazione Russa e la destrutturazione dell’architettura di sicurezza europea i flussi transatlantici di capitale hanno assunto un senso univocamente favorevole agli Stati Uniti. Lo ha ammesso la stessa presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, che nel corso di una riunione straordinaria del Consiglio Europeo tenutasi lo scorso aprile ha confermato quanto già denunciato da Enrico Letta, secondo cui oltre il 30% circa dei 1.000 miliardi di euro che ogni anno defluiscono dall’Europa prendono la via degli Usa.

Le importazioni di capitali (non solo) europei hanno impresso una forte spinta propulsiva all’economia degli Stati Uniti, i quali hanno chiuso il 2023 con una crescita del Pil su base annua pari al 3,1%. Un incremento di 1,5 trilioni di dollari (da 25,35 a 26,85 trilioni), conseguito a fronte di un concomitante aumento del debito netto con l’estero di 3,59 trilioni di dollari (da 16,26 a 19,85 trilioni).

Segno che, a circa un secolo di distanza dalla sua formulazione (1916), l’osservazione di Lenin secondo cui «l’esportazione del capitale è parassitismo elevato al quadrato» può essere capovolta nel suo esatto contrario.

 

 

 

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