Professor Sidoti: “Pasolini simbolo di un’Italia che non ha avuto giustizia”
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Cosa resta delle celebrazioni del centenario della nascita del Poeta, regista, scrittore, giornalista, Pier Paolo Pasolini? Lo abbiamo chiesto a Francesco Sidoti, professore emerito di sociologia e criminologia.
Emerge, attraverso le parole del docente, una nuova consapevolezza nei confronti di Pasolini che è maturata nel tempo. Restano, però, delle ferite aperte, in particolare sulla morte del Poeta. Resta, soprattutto, un’amara certezza che Pasolini stesso ci ha lasciato.
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Partiamo da un bilancio delle celebrazioni per il centenario di Pier Paolo Pasolini. Non crede che si sia rischiato di storicizzare o “cristallizzare” la sua figura?
Cristallizzare non è la parola che userei. Per il tipo di persona e intellettuale che era Pasolini, c’è stato un cambiamento nella percezione rispetto a quando è morto. Nel corso del tempo e negli anni a seguire ci saranno ancora altre rivisitazioni, altre riletture. In fondo, il complimento più bello che si possa fare a un classico è quello di risultare sempre attuale.
Su questa percezione diversa, quanto è ancora importante e vivo Pasolini?
Proprio in questo periodo c’è stato un fortissimo interesse e un bisogno di riflessione, anche perché c'è la coincidenza con un altro anniversario: il centenario di Pasolini e il sessantesimo anniversario della uccisione di Enrico Mattei. Mentre cinquanta anni fa le due vicende erano separate e distinte, adesso moltissimi vedono una connessione tra questi assassinii. Non è il solo esempio a proposito del cambiamento di percezione. Sulla connessione tra il caso Mattei e il caso Pasolini, ci sono molte ipotesi che vedono nessi comuni, in particolare sulla loro fine.
A tal proposito, in questi giorni c’è stato l’anniversario della Strage di Piazza Fontana. Pasolini con il Romanzo delle stragi denunciò quella trama di potere dietro questi atti. Eppure, il suo delitto non è stato mai collegato alla strage e alle trame di quegli anni. Non è un paradosso?
Quando muore Pasolini, andiamo per gradi, l’etichetta sul tipo di omicidio nasce innanzitutto a sinistra, quando l'Unità titolò, cito a memoria, “Ucciso da quella stessa violenza che aveva raccontato". In sintesi: era un omosessuale, frequentava le persone sbagliate e viveva una vita pericolosa. La sinistra avallava dall'inizio la tesi ufficiale, che con sbalorditiva faccia tosta metteva in primo piano Pelosi e sullo sfondo i soliti "ragazzi di vita". Una tesi che fu vincente alla fine e messa in dubbio soltanto da Carlo Alfredo Moro [presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, giudice del processo di primo grado sull’omicidio Pasolini, condannò Giuseppe Pelosi in ‘concorso con ignoti' per l'omicidio di Pasolini]. Nell’immediato e nei decenni successivi, non ci furono grandi approfondimenti della pista lasciata aperta da Carlo Alfredo Moro; lo stesso Enzo Siciliano, che ha custodito il lascito letterario di Pasolini, così come l’avvocato Guido Calvi non è che abbiano indagato o documentato un'inquietante possibilità alternativa, ovvero che Pasolini sia stato vittima di una "macchinazione", come ha detto David Grieco. In merito, ci furono soltanto voci minoritarie e spesso fuorvianti. La Corte d'appello, nel 1976, ribaltando la prima sentenza, scrisse di ritenere estremamente improbabile che Pelosi avesse avuto dei complici. E fu una pietra tombale.
Quindi sulla figura di Pasolini è rimasto un marchio di infamia?
Certo, ci fu un coro di adeguamento alla versione istituzionale, nell’immediato, non solo nei partiti di governo e nei grandi giornali. All’epoca la società italiana non era ancora così “smaliziata”. Un giornale come Repubblica ancora non esisteva. Nella stagione successiva all’omicidio Pasolini, quella dei delitti di mafia, ci fu anche un risveglio, nel Paese, della capacità di fare riflessioni sulle vicende più oscure. Pasolini muore in un’Italia diversa da quella di oggi, non soltanto da punto di vista informativo, ma anche investigativo. Su di lui è sceso un marchio legittimato anche a sinistra (nonostante egli avesse ripreso buoni rapporti con quella parte politica). L’odio che c’è sempre stato da parte della destra e il fatto che la sinistra si sia accodata immediatamente alla versione istituzionale, ha fatto in modo che per decenni, tranne voci isolate come quella di Grieco, sia passata quella versione sulla morte di Pasolini.
Riguardo il Delitto Pasolini, nella sua attività di criminologo, ci sono degli aspetti che le ritiene che debbano ancora essere considerati?
Un esempio, ripeto, sono due persone a ragione molto illustri e stimate: l’avvocato Guido Calvi che aveva le carte giudiziarie su Pasolini ed Enzo Siciliano che aveva le carte scritte da Pasolini. Essi intravedevano un'altra strada, però non la percorrevano. Enzo Siciliano sottolinea che un’atleta come Pasolini nel pieno della sua forza fisica, non poteva essere picchiato selvaggiamente e contemporaneamente sull'imberbe, diciassettenne Pelosi non si riscontrava in maniera significativa un graffio, una macchia di sangue, una contusione. Questa sottolineatura già da sola sconfessava la versione istituzionale. La stessa logica per Guido Calvi; fa riaprire il caso, grazie al nuovo codice, con la testimonianza di Sergio Citti, ma poi non c’è stato molto di più. Un profondo cambiamento nell’approccio c’è stato con il caso Mattei. In quanto, se c’è stata una "macchinazione", allora la connessione con Mattei è quella che in linea teorica appare più importante per un motivo preciso. Pasolini scrive quell’articolo terribile, ‘Io so’, sulla prima pagina del Corriere della Sera. Quell'articolo non poteva non colpire chi, insieme a lui, "sapeva". Quell'articolo significava che Pasolini poteva essere informato, a conoscenza di verità scomode e comunque aveva in mano il più potente altoparlante dell'epoca. Chi aveva ordito l'eventuale "macchinazione" nel 1975 ha un motivo enorme di preoccupazione, perché c’è un’ingovernabile Pasolini che parla di cose fino ad allora nascoste nel più orchestrato silenzio (non lo dico io, lo dice e lo documenta lungamente il giudice Calia, in una sentenza poi confermata totalmente in Cassazione).
All’epoca, tanti, molti di noi, non sapevamo cose importanti. Soltanto grazie all'indagine promossa dal giudice Calia possiamo soltanto oggi dire apertamente che Enrico Mattei è stato ucciso. Un uomo coraggioso ha scoperchiato un silenzio che era anche e soprattutto il silenzio della classe dirigente italiana. Pasolini parlava delle stragi, ma parlava di un filo rosso che cominciava proprio con Mattei. Sono vicende sulle quali a sinistra, come nella magistratura, c’è stata estrema cautela o denuncia di segmenti isolati. Solo adesso, ad esempio, sulla strage di Brescia, il giudice Tamburrino, andando in pensione ha potuto ricostruire una serie di percorsi sui quali da magistrato non aveva potuto avventurarsi. Le fondazioni, i partiti, i giornali di sinistra cosa hanno fatto per illuminare i casi Mattei e Pasolini? Non sottovaluto l'impegno enorme di quanto è stato fatto in tema di mafia o di terrorismo - anche se mi chiedo quanto sia stato piuttosto oggetto di depistaggio conclamato e istituzionalmente avallato, come nel caso Spatuzza-Scarantino-via D'Amelio. Questo depistaggio è noto e compreso soltanto in minima parte: sappiamo che certamente c'è stato, ma non sappiamo chi e perché.
Mentre per Pasolini ancora nulla...
Grazie al giudice Calia abbiamo scoperto i depistaggi sconvolgenti che sono stati attuati dopo la morte di Mattei. Pasolini non ha trovato qualcuno come il magistrato Calia o come i magistrati del caso Spatuzza-Scarantino-via D'Amelio, ma esattamente il contrario: una versione ufficiale che ha resistito e non è mai stata efficacemente messa in discussione. Sappiamo anche che all’Eni e nelle istituzioni molti osservatori informatissimi e autorevolissimi (ad esempio, l'ammiraglio Martini) hanno pensato che Mattei fosse stato ucciso. Ma la versione ufficiale negava l'assassinio. Qualcosa di simile potrebbe essere avvenuto per quanto riguarda Pasolini. Alcune circostanze sulla morte di Pasolini erano eloquenti già all’epoca. Per esempio, un avvocato come Rocco Mangia, fra i più famosi di Roma (tra gli altri, aveva difeso gli assassini del Circeo) si prende in carico la difesa di Pelosi, che costava un’ira di Dio. Ma non c’è solo lo studio Mangia. Chi va a fare la perizia a favore di Pelosi è il più importante (e costoso) criminologo italiano: Aldo Semerari. Inoltre, a firmare la perizia non c’è solo Semerari. C’è anche la firma di Fiorella Carrara e quella di Franco Ferracuti che ha una storia molto diversa da quella di Semerari, connessa non all'estrema destra ma ad istituzioni centrali nella storia italiana, a livello interno e internazionale. Benigno Di Tullio era stato il più eminente successore di Lombroso. Dopo di lui, la cattedra romana di Antropologia criminale fu divisa in due: quella di Medicina criminologica fu data a Semerari, quella di Psichiatria forense fu data a Franco Ferracuti.
Tra l’altro i rapporti tra Ferracuti e Semerari non erano proprio idilliaci, tanto è vero che Semerari sospettò che Ferracuti potesse essere coinvolto nelle vicende che nel 1980 lo porteranno in carcere. Eppure, tutti e due firmano quella perizia contro Pasolini, facendo pesare la propria enorme autorevolezza - che in questo caso era evidentemente convergente. Come si spiega che il più illustre penalista romano, i due più illustri criminologi italiani si trovino a difendere tutti insieme il diciassettenne e, se non ricordo male, nullatenente Pelosi? Come e perché tante persone importanti si ritrovino tutti insieme, lì, non lo sapremo bene mai. Alcune persone che invece erano presenti all’epoca, come Calvi e Siciliano in via esemplificativa, ma penso soprattutto ai politici, conoscevano bene fatti e persone implicate. Da osservatore esterno, da studioso io e tanti altri abbiamo saputo certe cose soltanto negli anni più recenti. Ma all'epoca Calvi quando vede che c’è lo studio Mangia, le perizie di Semerari e Ferracuti, cosa avrà pensato? Pure Enzo Siciliano alla fine legittima la versione ufficiale, pur parzialmente smentita o corretta dal magistrato Moro.
Adesso il singolo intellettuale può essere distrutto facilmente. All'epoca milioni di italiani che votavano Pci avrebbero voluto giustizia su Pasolini e su Mattei (che fra l'altro aveva attivato la più importante collaborazione con l'Unione sovietica in tutto il blocco occidentale). Proprio quella parte politica che avrebbe dovuto porsi da subito le domande più inquietanti, al contrario, ha legittimato una versione istituzionale.
Lei ha citato Semerari e Ferracuti. Sul luogo del delitto arrivò anche, informato della morte di Pasolini da David Grieco, il professor Faustino Durante, medico legale fra i più importanti dell’epoca che aveva svolto le autopsie di Pinelli e Panagulis. Quanto è stata importante secondo lei la presenza e la perizia di Durante in quella che lui stesso definì “una mattanza”?
La relazione peritale del professor Faustino Durante costituisce la base della sentenza di Carlo Alfredo Moro. Si tratta di una relazione molto chiara, documentata e convincente. Suscita sconcerto ancora oggi, perché spiega bene la dinamica dell'assassinio e crea enormi interrogativi: come si spiega che un'interpretazione alternativa sia stata proposta da personalità eminenti (e per il resto divergenti) come Semerari e Ferracuti? Tutti e due, Semerari e Ferracuti sono reclutati proprio per rintuzzare e sminuire la relazione di Faustino Durante; con Carlo Alfredo Moro non funzionò, ma funzionò poi in Corte d'appello.
Come si spiega che politici, intellettuali, osservatori non abbiano attivato analisi, investigazioni, riflessioni adeguate? Perché la versione ufficiale fu sostanzialmente accettata senza reale ed effettivo contrasto?
L’eredità di Pasolini, le sue profezie, il suo messaggio da chi è stata raccolta?
Pasolini era un eterodosso, totalmente fuori dal coro. Pasolini è rimasto estraneo alla sinistra non solo nell’omicidio, ma anche in quasi tutta la sua riflessione, spesso assai stridente rispetto alla vulgata di sinistra (come nel caso assai noto della meditazione sulle forze di polizia). C'è stato un ritardo su molti temi pasoliniani, come la trasformazione antropologica o il consumismo. È passata tutta un’altra narrazione; la globalizzazione, il mondo unipolare, la fine della storia, le magnifiche sorti e progressive, hanno vinto anche a sinistra. I gruppi dirigenti della cultura italiana sono rimasti sostanzialmente estranei se non ostili alla riflessione pasoliniana.
Professore, cosa resterà di Pasolini dopo le celebrazioni di questo centenario?
Di Pasolini restano molte cose, ma una in particolare: resta il simbolo di un’Italia che non ha avuto giustizia. Pasolini non ha avuto giustizia, non ha avuto giustizia già da vivo nei tribunali (nei quali è stato imputato innumerevoli volte e con accuse tra le più incredibili, ad esempio come autore di rapine a mano armata nei confronti di benzinai). Da morto, doppiamente non ha avuto giustizia, dai magistrati come dai politici e dagli intellettuali. Ho ricordato e ribadito che la politica ha di fatto avvalorato immediatamente la versione più comoda e negli anni a seguire non ha fatto nulla o ha fatto molto poco. Riguardo gli intellettuali, solo alcuni si ricordano di Pasolini al di là dei pochi affezionati e delle dovute quattro chiacchiere di circostanza.