Riconoscimento e aiuti umanitari: l'Afghanistan dimenticato dall'occidente
di Maria Morigi
Nella primavera-estate 2021 l’esercito “democratico” (e corrotto) afghano getta le armi e non impedisce la liberazione di tutte le province da parte dei Talebani. Il 15 agosto cade Kabul. Entro il 31 di agosto le forze USA e NATO sgomberano l’Afghanistan. Ricordiamo bene il caos di quel ritiro disorganizzato, la fuga del presidente e dello staff governativo colluso e corrotto, la fuga dei collaboratori delle forze straniere, la fuga di molti signori della guerra che avevano lucrato con droga e tasse. Ricordiamo l’emergenza di sfollati e profughi, abbandonati da chi li aveva usati.
A settembre è proclamato l’Emirato islamico dell’Afghanistan. Invocando la pace, il leader supremo Hibatullah Akhundzada dice: "Garantire la sicurezza sarà una grande responsabilità, ma questo Paese non è più quello di venti anni fa". Di lì a poco si insedia un governo sgradito agli USA. Dopo la documentazione del caos dei primi giorni, l’informazione trasmette un univoco messaggio: i colpevoli del disastro sono Talebani. Nella narrazione dei diritti negati al popolo afghano vengono recuperati leitmotiv e slogan contro i Talebani nemici delle donne e dell’umanità: studentesse che vedono sfumare i loro percorsi scolastici (in realtà già a settembre le scuole femminili riaprono), donne costrette al burqa, ma ci si dimentica che leggi repressive contro le donne furono votate da “governi democratici” e dall’etnia tagika, ostile prima ai Sovietici e poi ai Talebani.
L’Occidente unipolare aderisce alla marmellata ideologica dei diritti umani e alle retoriche anti-comunista, anti-islamica e anti-talebana, di pari passo cala ai minimi storici l’attenzione umanitaria sulla reale situazione di crisi dell’Afghanistan. E così all’indomani della sconclusionata fuga, in nome ancora una volta dei diritti umani violati, Stati Uniti e satelliti negano e impediscono con fermezza il riconoscimento ufficiale dell’Afghanistan.
Appena a gennaio 2022 si apre molto timidamente la questione del riconoscimento, quando il Ministro degli Esteri norvegese invita a Oslo i Talebani al tavolo della Conferenza per i diritti umani. il fine dei colloqui è di instaurare almeno un dialogo tra le parti. Per i Talebani, come afferma il portavoce della delegazione afghana Zabihullah Mujahid, l’obiettivo è focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sulla crisi afghana, nella speranza di garantire gli aiuti necessari al di là della questione del riconoscimento. Per capirci si tratta della crisi umanitaria definita dal World Food Program (WFP) come la più devastante del pianeta (valutati 18,9 milioni di afghani in “insicurezza alimentare acuta” in 25 delle 34 province, quasi 6 milioni in “insicurezza alimentare di emergenza”, moneta locale ai minimi storici, prezzi del cibo in aumento).
Eppure, a distanza di un anno e mezzo dalla caduta di Kabul, è evidente che gli Stati occidentali, tanto solerti nelle denunciare gli altri per violazione dei diritti, non si sentono moralmente tenuti ad affrontare né la questione del riconoscimento né la questione degli aiuti per l’emergenza umanitaria. E si tratta di almeno 10 miliardi di dollari che Stati Uniti, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale avevano garantito quali riserve finanziarie all’Afghanistan, ma che sono stati bloccati dopo la caduta di Kabul. Questi 10 miliardi, per essere fruibili, devono essere acquisiti da un governo riconosciuto in legittimità a livello internazionale.
Al contrario, Russia, Cina, Iran, Pakistan e gli Stati dell’Asia Centrale vicini all’Afghanistan, sperano e hanno interesse che il riconoscimento avvenga in tempi più brevi possibile, perché renderebbe sicuri gli scambi alle frontiere, consentirebbe di affrontare con un piano comune il flusso dei rifugiati e ridurrebbe gli effetti negativi derivati da illegalità, terrorismo transfrontaliero e traffico di droga. A tal fine, gli attori regionali invitano i Talebani ad occupare le sedi diplomatiche afghane nei vari Paesi, chiedono protezione dei confini ma, nello stesso tempo offrono aiuti e verificano la capacità dei Talebani di risolvere le divisioni interne. Al contrario USA e Paesi europei sembrano essere del tutto disinteressati ad una soluzione, anzi si tengono requisiti nelle banche i soldi del disgraziato Afghanistan che, come vediamo, adesso per ottenere ascolto sta rivolgendosi ad altri partner, ad esempio la SCO (Shanghai Cooperation Organization).
Breve nota sui report di Amnesty International relativi alla situazione in Afghanistan: li ho letti attentamente confrontandoli con altre numerose inchieste-denunce relative a Xinjiang e Tibet (argomenti che conosco in modo approfondito) e posso dire che sono zeppi di accuse generiche, ripetitive – se non addirittura riciclate da altri copioni - e non provate (una testimonianza anonima non ha valore di prova). Per di più non si capisce come gli incaricati d’inchiesta ONG possano liberamente aggirarsi in città e luoghi rurali del Paese severamente sorvegliato dai Talebani, né si capisce come riescano a contattare persone perseguitate/incarcerate o parenti di chi ha subito violenza, senza prendersi neppure un rimprovero o finire essi stessi in galera.
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