Russiagate, Burisma e Rosemont: la degenerazione (senza fine) della politica Usa

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Russiagate, Burisma e Rosemont: la degenerazione (senza fine) della politica Usa

 

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Nei giorni scorsi, il procuratore speciale John Durham ha chiuso l’indagine sul cosiddetto Russiagate, acclarando che l’Fbi avviò la relativa inchiesta denominata Crossfire Hurricane, intesa ad appurare la natura dei presunti rapporti tra Donald Trump e ambienti riconducibili al Cremlino, in assenza di prove tangibili ma su specifico mandato di Barack Obama, Hillary Clinton e la loro cerchia.

Alla quale appartiene Michael Morell, ex vicedirettore della Cia e cofirmatario assieme ad altri 50 funzionari dell’intelligence statunitense della cosiddetta “Dichiarazione pubblica sulle e-mail di Hunter Biden”, datata 19 ottobre 2020 e concepita da Antony Blinken, che all’epoca ricopriva il ruolo di consigliere per la campagna elettorale del candidato democratico Joe Biden. Nel documento si sosteneva che l’inchiesta condotta dal «New York Post» sulle e-mail del figlio dell’attuale presidente Joe Biden fossero frutto della disinformazione russa. Come si evince da una e-mail di cui è entrato in possesso il «New York Post», Morell era perfettamente consapevole che questa tesi era completamente priva di riscontri ma avallarla apponendole il timbro di autorevolezza della Cia risultava a suo avviso necessaria per garantire all’allora candidato Joe Biden un argomento valido da spendere in campagna elettorale, dove si prevedeva che Trump avrebbe orientato i suoi attacchi proprio sugli oscuri affari del figlio Hunter.

In precedenza, come attestato proprio dalle e-mail passate al vaglio dal quotidiano newyorkese, era stato Joe Biden in persona ad accorrere in soccorso del figlio, sponsorizzando, in veste di vicepresidente degli Stati uniti sotto l’amministrazione Obama, il suo inserimento nel consiglio di amministrazione della compagnia energetica ucraina Burisma. Si tratta di una holding riconducibile al potente ed influente oligarca Igor Kolomojskij, che, oltre a Hunter Biden, annoverava nel proprio consiglio’ex presidente polacco Alexander Kwasniewski e David Leiter, capo dello staff del segretario di Stato John Kerry. Nonché Devon Archer, ex consulente finanziario di Kerry e socio d’affari di Hunter presso Rosemont Seneca, società di consulenza da cui, grazie ai buoni uffici di Joe Biden, era scaturito quello che il «Wall Street Journal» ha definito «il più grande fondo private equity cinese-americano», costituito assieme al Bohai Investment di Pechino e all’Harvest Global Investment di Hong Kong. Hunter Biden sarebbe entrato nel consiglio d'amministrazione del fondo dopo aver preso parte a una riunione d’alto rango in Cina, ove si era recato viaggiando in compagnia del padre a bordo dell’Air Force Two. All’epoca, il «Washington Post», quotidiano tradizionalmente vicino al Partito Democratico, fu tra i primi a sollevare forti perplessità in merito alla faccenda, domandando sarcasticamente «quanto dev’essere alto lo stipendio del figlio di Biden per mettere così a rischio il soft power statunitense».

Non stupisce pertanto che le attività di Hunter Biden fossero finite sotto la lente di ingrandimento del procuratore generale di Kiev Viktor Šokin, dalle cui indagini cominciarono rapidamente ad emergere documenti bancari statunitensi attestanti bonifici per un importo generalmente superiore a 166.000 dollari al mese effettuati regolarmente da Burisma sui un conto intestato a Rosemont Seneca tra la primavera del 2014 e l’autunno del 2015. Fu in quel frangente che si dispiegò l’intervento ricattatorio di Joe Biden, che abusando clamorosamente della propria posizione di potere prospettò all’allora presidente ucraino Petro Porošenko il blocco dei fondi statunitensi su cui si reggeva la stabilità finanziaria della disastrata Ucraina qualora Šokin non fosse stato immediatamente rimosso dall’incarico. È stato lo stesso Biden a raccontare la vicenda in questi esatti termini, affermando testualmente di aver chiarito dinnanzi alle controparti ucraine che «“se il procuratore non viene licenziato, non avrete i soldi”. Ebbene, quel figlio di puttana fu cacciato. E al suo posto nominarono qualcuno che, all’epoca, riscuoteva il nostro gradimento».

Naturalmente, la rete di sicurezza allestita attorno ad Hunter Biden è andata notevolmente rafforzandosi sotto la presidenza del padre Joe, come si evince dalle pressioni esercitate dall’Fbi sui vertici di Facebook affinché censurassero i post che rimandavano alle inchieste sul suo conto. Nonché dalle recenti rivelazioni rese da un funzionario dell’Internal Revenue Service statunitense secondo cui, su iniziativa del Dipartimento di Giustizia, l’intera squadra investigativa titolare dell’indagine tributaria incentrata su Hunter Biden sarebbe stata rimossa dall’incarico.

Significativamente, nel novero dei firmatari del documento a sostegno di Hunter Biden figura anche James Clapper, che in qualità di direttore della National Intelligence mentì spudoratamente al Congresso dichiarando sotto giuramento che, contrariamente a quanto acclarato dalla imponente documentazione resa di pubblico dominio da Edward Snowden, la National Security Agency non aveva intenzionalmente intercettato in maniera del tutto illegittima le comunicazioni di milioni di cittadini statunitensi.

 

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