Soleimani: un indebito omicidio per un nuovo 11 settembre
Washington afferma che l’assassinio del generale Qassem Suleimani è giustificato dal fatto che il capo delle Guardie della rivoluzione iraniane stava preparando attacchi contro gli Usa in risposta ai raid contro Hezbollah in Siria e Iraq avvenuti a fine dicembre.
Un attacco legittimo, dunque. Eppure le circostanze dell’omicidio dicono tutt’altro.
Il nemico necessario
Per capire cosa è avvenuto occorre tener presente chi è Suleimani. Per accennarne usiamo la penna di un suo detrattore, Anshel Pfeffer, che su Haaretz ne fa un ritratto al vetriolo; ritratto di parte, parte israeliana ovviamente, il Paese che da tempo aveva identificato il generale iraniano come il suo più acerrimo e temibile nemico.
“Nessuno poteva tenere in mano tutti i fili scollegati del mutevole gioco di potere regionale e maneggiarli come fili di marionette, come faceva lui”, scrive Pfeffer.
Era stato Soleimani a ideare la strategia di contrasto alle legioni jihadiste sostenute dai Paesi del Golfo e dall’Occidente – e collegate con l’Isis e al Qaeda – scatenate in Siria e Iraq per destabilizzare la regione (obiettivo finale: Teheran).
E a impedire che il magma ribollente tracimasse. Ma evitando escalation. Così, “senza Soleimani a guidare la campagna, l’Iran potrebbe ora, per la prima volta, decidere per una risposta drastica e condurre una guerra totale”, scrive
Pfeffer. Che poi è l’obiettivo che si è proposto chi l’ha assassinato.
“Negli ultimi 22 anni – aggiunge -, Soleimani è stato un nemico stabile anche se ruvido; senza di lui, le cose diventano molto meno prevedibili“.
L’insostenibile leggerezza di Soleimani
Ma davvero egli stava progettando azioni contro gli Stati Uniti? Soleimani, come accennato, era in cima alla lista dei target israeliani e americani.
Le intelligence di mezzo mondo l’hanno braccato per decenni, senza riuscire a scovarlo: per anni ha eluso sorveglianza e trappole, oltre a diversi tentativi di omicidio.
I suoi spostamenti erano tutelati dal segreto più stretto. Nascosto in sicurezza, “appariva” dove doveva arrivare, invisibile a tutti.
L’uomo più ricercato del mondo aveva anche ricevuto una minaccia diretta dagli Stati Uniti il giorno prima del suo assassinio. Il generale Mark Esper, a Capo del Pentagono, aveva dichiarato che gli Stati Uniti si riservavano il diritto di agire in via preventiva per evitare rappresaglie contro obiettivi americani.
Così l’uomo più ricercato del mondo, progetta piani che gli attirano le bombe americane, prende un aereo e sbarca nell’aeroporto internazionale di Baghdad…
Una leggerezza che stride con l’acuta intelligenza del personaggio, riconosciuta anche dai suoi nemici. Se davvero progettava qualcosa, l’avrebbe fatto da luogo sicuro, in Iran.
Luce verde?
Così andiamo al giorno precedente al suo omicidio. Non c’erano state solo le parole di Esper, ma anche quelle di Trump, il quale aveva dichiarato che avrebbe ritenuto responsabile Teheran per i danni provocati dalle proteste anti-americane in Iraq seguite ai raid.
E probabilmente il viaggio quasi-pubblico di Soleimani in Iraq trova una spiegazione proprio in questo monito. Il generale sapeva bene che un’escalation contro gli Usa avrebbe attirato disastri al suo Paese, tanto che l’ha sempre evitata.
È possibile così che volesse sedare gli animi, incanalare il risentimento delle milizie di Hezbollah verso iniziative meno a rischio.
Da qui il viaggio quasi ufficiale in Iraq, che immaginava senza pericoli. Chissà se addirittura avesse informato riservatamente gli americani sullo scopo della visita e se avesse ricevuto una qualche luce verde.
D’altronde è noto che manteneva canali di comunicazione sottotraccia con i suoi nemici, come evidenzia anche l’articolo di Haaretz, che rammenta come gli Stati Uniti “hanno collaborato indirettamente con lui nella speranza che ciò potesse stabilizzare l’Iraq e contribuire a combattere Al Qaida e lo Stato islamico” (cosa avvenuta: Soleimani è stato protagonista assoluto della battaglia vittoriosa contro l’Isis, vedi Piccolenote). Ma tant’è, ormai è morto.
L’ambiguità di Trump
Inspiegabile la decisione di Trump di avallare il raid, giunto peraltro alla fine delle esercitazioni navali congiunte delle flotte russe, cinesi e iraniane, sanguinario memento anche a Pechino e Mosca per una convergenza indesiderata.
Un voltafaccia della politica condotta finora nei confronti dell’Iran, verso la quale ha esercitato massima pressione, ma evitato interventi. E del suo approccio morbido verso la Cina e soprattutto verso la Russia.
Ambiguo anche il twitt di Trump dopo l’omicidio: “L’Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso una trattativa!” Come a chiedere di non iniziare un conflitto, aprendo a concessioni.
Richiesta fuori registro, almeno oggi che il sangue è fresco. Trump sembra frastornato. I suoi gli hanno teso una trappola da cui non può più uscire?
È quanto pensa Tucker Carlson, opinionista di Fox News vicino dal presidente che. criticando l’assassinio di Soleimani, ha detto che Trump è stato “manipolato” dallo Stato profondo che da anni cerca la guerra contro l’Iran (The Week).
L’assassinio di Soleimani è stata una vittoria dell’ex Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, il neocon John Bolton, ha chiosato, non senza ragione (Dayli Caller).
Quanto avvenuto, infatti, riecheggia i fasti dell’11 settembre, quando i neocon presero il potere in America. Si spera che i danni conseguenti siano limitati.