Sulle origini fasciste dell'UE

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Sulle origini fasciste dell'UE

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di Thomas Fazi

 

Oggi, in seguito alla nomina di Boris Johnson a nuovo primo ministro britannico, molti stanno riprendendo una sua celebre intervista del 2016 in cui affermò che l'Unione europea sta perseguendo un obiettivo simile a quello di Hitler nella creazione di un sovrastato europeo.


Detta così, può sembrare un'assurdità.


In verità, come spiego in Sovranità o barbarie, l'affermazione di Johnson non è così lontana dalla realtà.


È opinione comune che il moderno pensiero federalista nasca dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Ma le teorie federaliste risalgono a ben prima del conflitto mondiale e persino lo stesso federalismo “antifascista” di Spinelli presenta inquietanti elementi di contiguità con le teorie che ispirarono quel conflitto e in antitesi alle quali, secondo la vulgata, si sarebbe sviluppato il pensiero federalista.


L’ideologia europeista, antisovranista e sovranazionalista – e il sogno dell’unificazione economico-politica del continente – erano infatti aspetti centrali della stessa filosofia nazifascista, nelle sue molteplici varianti, nonché della propaganda hitleriana.


Come scrive lo storico inglese John Laughland, autore di un corposo volume sul tema, “non solo i nazisti, ma anche i fascisti e i loro collaboratori in giro per l’Europa, hanno fatto ampio uso dell’ideologia federalista ed europeista per giustificare le loro aggressioni”. Ciò potrebbe meravigliare. È opinione comune, infatti, che i nazifascisti, in quanto ultrasciovinisti e imperialisti, esaltassero lo Stato-nazione e la sovranità nazionale; in verità, osserva Laughland, “essi nutrivano una profonda avversione per la sovranità nazionale; non solo, come può sembrare ovvio, per quella delle altre nazioni, ma per il concetto stesso”.


Il rifiuto della sovranità nazionale è molto esplicito nel pensiero nazifascista; fatto ancor più interessante, tale rifiuto si fondava sulle stesse argomentazioni dei federalisti odierni. Uno dei principali punti in comune dell’europeismo nazifascista tanto con l’europeismo spinelliano quanto con quello odierno era l’idea secondo cui gli Stati-nazione conducono inevitabilmente alla guerra e che dunque la presenza di una moltitudine di “piccole patrie” sul continente europeo fosse un elemento foriero di instabilità. Solo l’unificazione economico-politica del continente su basi federali avrebbe posto fine agli egoismi nazionali e permesso all’Europa di assumere un ruolo di guida nel mondo.


L’europeismo nazifascista, non diversamente dall’europeismo attuale, aveva anche forti caratteristiche morali e spirituali, secondo cui l’Europa, in quanto civiltà superiore, doveva ergersi a guida delle altre. Come dichiarò Benito Mussolini nel 1933: “L’Europa potrebbe nuovamente mettersi alla testa del mondo civilizzato se riuscisse a dotarsi di un certo grado di unità politica”. Così scriveva invece Vidkun Quisling, fondatore del partito fascista norvegese e noto collaboratore del regime nazista, nel 1942: "Dobbiamo creare un’Europa che non sprechi il proprio sangue e la propria forza in conflitti distruttivi, ma formi una compatta unità. In questo modo essa diventerà più ricca, più forte e più civile, e recupererà il suo antico rango nel mondo. Tensioni nazionali e grette gelosie perderanno ogni significato in un’Europa liberamente organizzata su basi federali. Lo sviluppo politico del mondo passa inevitabilmente attraverso formazione di più vaste sfere politiche ed economiche".


Sulla stessa linea anche Alberto de Stefani, ministro del Tesoro e delle Finanze di Mussolini dal 1922 al 1925: "I risultati di un eccessivo nazionalismo e degli smembramenti territoriali sono nell’esperienza di tutti. L’unica speranza di pace è in un processo che da una parte rispetti l’inalienabile, fondamentale patrimonio di ogni nazione ma, dall’altra, lo moderi e lo subordini a una politica continentale. [...] Le nazionalità non costituiscono una solida base per il progettato nuovo ordine, a causa della loro molteplicità e della loro tradizionale intransigenza".


Analogamente, nel 1943 lo stesso Hitler dichiarò che “il disordine delle piccole nazioni” e “l’anacronistica divisione dell’Europa in singoli Stati” andavano liquidati. Lo scopo della lotta nazista era quello di creare un’Europa unita. A tal fine, i singoli paesi europei dovevano essere disposti “a subordinare i propri interessi a quelli della Comunità europea”: parola di Walther Funk, ministro per gli Affari economici del terzo Reich dal 1937 al 1945.


Soggiace a questa idea degli Stati come forieri di caos e anarchia una visione “organicista” delle relazioni sia sociali (tra classi) che internazionali (tra paesi) – che accomuna l’europeismo nazifascista, quello antifascista di Spinelli e quello progressista odierno –, secondo la quale qualunque conflitto va sublimato all’interno di un “unicum” superiore, sia a livello di politica interna che di politica internazionale.


Secondo il fascista De Stefani, infatti, uno dei vantaggi della federazione europea sarebbe stato di “non [...] essere soggetta alle variazioni delle politiche locali” caratteristiche dei regimi democratici nazionali. È precisamente la stessa visione espressa nel Manifesto di Ventotene, secondo cui uno dei principali demeriti degli Stati nazionali di cui si auspica il superamento sarebbe quello di aver “già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano”.


In altre parole, per Spinelli come per De Stefani, il problema dello Stato nazionale è la radicalizzazione/polarizzazione del conflitto di classe che esso, nella sua forma democratico-costituzionale, rende possibile; conflitto di classe che, invece, verrebbe sterilizzato e spoliticizzato all’interno di uno Stato sovranazionale, come teorizzato anche da Hayek. In questo senso, la federazione europea era vista, sia dai fascisti che da Spinelli, come un mezzo per contrastare l’influenza dei partiti comunisti in Europa. Il Manifesto di Ventotene non lascia dubbi a riguardo: “Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo”.


A livello internazionale, l’organicismo federalista si traduce nell’idea – evidentemente fallace – secondo cui tutti gli Stati europei sarebbero accomunati da medesimi interessi, da cui il termine “comunità di destino”, caro alla letteratura europeista: se tutti i cittadini, come sostiene la teoria organicista, condividono gli stessi interessi, perché lo stesso non dovrebbe valere anche per le nazioni? Va da sé che nella narrazione federalista i due livelli, quello domestico e quello internazionale, sono strettamente collegati: il “nuovo ordine europeo” richiede(va) l’armonizzazione/sterilizzazione dei conflitti tanto a livello sociale quanto a livello economico-militare.


Un altro punto di contatto tra l’europeismo liberal-progressista – tanto nella sua versione storica quanto nella sua vulgata contemporanea – e l’europeismo nazifascista è l’idea che la sovranità nazionale, oltre ad essere intrinsecamente destabilizzante, sia/fosse da considerarsi un concetto superato, obsoleto. Secondo i principali teorici nazifascisti, la crescente interdipendenza economica tra paesi, il progresso tecnologico (soprattutto nel campo delle telecomunicazioni) e lo sviluppo di nuove reti di trasporto rendevano anacronistico il concetto stesso di sovranità nazionale. La tecnologia dei trasporti e delle telecomunicazioni sta accorciando le distanze tra i popoli – diceva Goebbels nel 1940 – e questo condurrà inevitabilmente all’integrazione europea.


Come scriveva Camillo Pellizzi, uno dei principali intellettuali fascisti dell’epoca: “Nessuna singola nazione europea può sperare oggi, e ancor meno in futuro, di competere nelle questioni militari, economiche o culturali con le grandi forze che stanno nascendo o già esistono all’infuori dell’Europa”. Per questa ragione sia i fascisti che i nazisti ritenevano che “lo sviluppo verso unità più grandi” fosse economicamente inevitabile.


Ritroviamo queste teorie anche nei testi federalisti di un liberale come Einaudi, scritti verso la fine del secondo conflitto mondiale. In "Per una federazione economica europea" (1943), Einaudi teorizza l’obbligo di muovere verso forme di organizzazione sovranazionale per gli stessi identici motivi addotti dai nazisti: progresso tecnologico, diffusione di nuovi mezzi di trasporto, ecc.:


"Accanto alla tenacia con cui i popoli, piccoli e grandi, anelano a conservare ed a perfezionare la propria autonomia spirituale culturale e politica, ecco le opposte tendenze dell’economia verso l’unità non tanto dei grandi spazi quanto del mondo intiero. Non solo i piccoli Stati, ma persino i grandi sono economicamente divenuti anacronistici ed assurdi".


Einaudi addirittura arriva a considerare le guerre di aggressione nazifasciste come la conseguenza della “necessità storica” di superare gli Stati nazionali (come teorizzato dagli stessi nazisti d’altronde), piuttosto che come la conseguenza perversa di un’ideologia che teorizzava tale presunta necessità, smentita dalla storia:


"Il mondo economico va verso l’unificazione; e se i vincoli artificiosi ritardatari frapposti dai governi dei piccoli Stati moderni – tutti gli Stati, anche quelli estesissimi, sono piccoli dinnanzi alle forze tecniche ed economiche che in un attimo fanno comunicare gli uomini da Roma a Tokio, da Washington a Londra, da Sidney a San Francisco, da Città del Capo a Stoccolma – non saranno tolti di mezzo con volontari accordi, essi saranno aboliti attraverso fiumi di sangue a profitto di quel popolo il quale inventerà e saprà usare i mezzi per assoggettare a sé gli altri. Le guerre del 1914-18 e del 1939-45 sono state la tragica manifestazione della necessità storica della unificazione economica del mondo".


L’idea, cara tanto ai liberali quanto ai fascisti dell’epoca, secondo cui nell’epoca moderna gli Stati nazionali erano destinati a essere rimpiazzati (o schiacciati) dalle “macroregioni” deve molto alle teorie del celebre economista tedesco Friedrich List. Quest’ultimo teorizzava che per resistere alle pressioni esercitate dalle potenze esterne e per competere adeguatamente con esse sui mercati mondiali, l’Europa doveva fondersi in un’unica unità economica, sotto la “direzione” della Germania. Le teorie di List furono poi riprese dai primi teorici geopolitici di inizio Novecento (tedeschi anch’essi) – come Karl Haushofer e Carl Schmitt –, che elaborarono i concetti di Lebensraum (“spazio vitale”) e di Grossraum (“grande spazio”), poi ripresi dai nazisti, che proponevano di riportare la Germania alla sua centralità mondiale, dotandola appunto di un suo “spazio vitale” a livello continentale. A tal fine, come detto, i nazisti proponevano la creazione di un nuovo ordine economico che ponesse fine, una volta per tutte, alla “balcanizzazione economica dell’Europa”.


Qui le similitudini tra l’europeismo nazifascista e quello contemporaneo si fanno veramente sorprendenti. I nazisti, infatti, elaborarono dei piani di integrazione/unificazione economica dell’Europa incredibilmente dettagliati che presentano sorprendenti affinità con l’Unione europea dei giorni nostri. Nel 1940, per esempio, Hermann Göring, presidente del Reichstag, presentò un piano dettagliato per “l’unificazione economica su vasta scala dell’Europa”. Esso includeva un’unione doganale, un mercato unico e l’istituzione di cambi fissi tra paesi, “nell’ottica della creazione di un’unione monetaria europea”.


L’unificazione monetaria giocava un ruolo assolutamente centrale nei piani dei nazisti: essa, infatti, sarebbe stata lo strumento che avrebbe garantito ai tedeschi la dominazione surrettizia di questa nuova area economica, in quanto il marco, come valuta di riferimento, “avrebbe assunto un ruolo dominante nella politica valutaria europea”. I piani nazisti per l’integrazione economica dell’Europa erano tanto politici quanto economici. Come disse Heinrich Hunke, presidente della federazione degli industriali di Berlino, nel 1942: “La necessità di un ordine politico per la cooperazione economica dei popoli è riconosciuta”. L’obiettivo, per Hunke e per il regime più in generale, era l’abolizione delle frontiere fra Stati e la creazione di una “unione politica” sotto l’egemonia tedesca.


Questi sono solo alcuni esempi dell’inquietante filo rosso che lega l’europeismo nazifascista degli anni Trenta e Quaranta a quello democratico del dopoguerra. Entrambi hanno un avversario comune, lo Stato nazionale, in cui vedono una minaccia per la pace e un regime troppo angusto per la moderna economia globalizzata.


Con ciò, ovviamente, non si vuole sostenere che gli europeisti di oggi siano nazifascisti, né che l’Unione europea possa considerarsi tale. Il punto, piuttosto, è un altro: evidenziare le implicazioni autoritarie e antidemocratiche dell’ideologia antisovranista e mostrare l’infondatezza di una presunta dicotomia tra nazionalismo ed europeismo; spesso e volentieri, infatti, le due cose vanno a braccetto (come nel caso della Germania di oggi).

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