Un paese fallito
Possiamo leggere l'appiattimento dell'Italia sulle posizioni guerrafondaie più oltranziste come il segno della profonda e vigliacca subalternità della stampa e della politica.
Sicuramente è così. Molti elementi lo confermano. E tuttavia mi pare che questo giudizio contienga anche un dato consolatorio, che non consente di comprendere fino in fondo che, in questa fase storica, l'Italia è un paese sostanzialmente fallito. E lo è sul piano culturale e politico prima ancora che su quello economico.
La classe politica, ma a ben vedere anche quella intellettuale, mostra ogni giorno di più di non possedere le categorie per interpretare il presente.
Domina la più abietta propaganda, il trasformismo, l'irresponsabilità, l'incapacità di leggere i processi storici in termini dialettici, misurando cioè le aspirazioni politiche dentro il quadro dei rapporti di forza. I responsabili non sono ovviamente solo Salvini o Letta. La carriera di questi due inetti è l'effetto, non la causa di un malessere culturale diffuso.
Il nostro è del resto un paese in cui un'intellettualità stanca e annoiata esprime come massima aspirazione l'introduzione della schwa nei documenti pubblici, rifuggendo da qualsiasi discorso che chiami in causa il paese come collettività, come realtà legata a determinati processi materiali.
È un paese intontito in cui il presidente del Consiglio può mettere in rapporto il calo di forniture di gas dalla Russia con la rinuncia all'aria condizionata, come se non esistesse un mondo produttivo fatto di operai, tecnici, impiegati e dirigenti che rischia seriamente il posto.