Venezuela, Guaidò: il bersaglio mobile

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Venezuela, Guaidò: il bersaglio mobile



di Fabrizio Casari - Altrenotizie 



Reduce dal fiasco di Cucuta e da un tour nelle capitali del cartello di Lima, dove ha raccolto delusioni e sorrisi di facciata, l’autoproclamato presidente del nulla, Juan Guaidò, ha fatto ritorno in Venezuela. E’ arrivato atterrando all’aeroporto di Caracas, dove sperava ci fosse chissà quale spiegamento di forze in procinto di arrestarlo ma ha trovato solo uno stuolo di fotografi e cameraman dei soliti media di proprietà dei soliti noti al servizio degli arcinoti interessi.

 

La UE e il governo statunitense, avevano ammonito il governo di Nicolas Maduro che avrebbero reagito duramente nel caso Guaidò fosse stato arrestato ma si è rivelato l’ennesimo abbaiare alla luna. Nessuno, infatti, ha pensato di fermarlo, a Caracas non difetta intelligenza e non si fabbricano eroi di cartone.

 

Sebbene quindi non mancherebbero i capi di imputazione per Guaidò, lasciarlo libero lo rende ulteriormente ridicolo, mentre arrestarlo gli offrirebbe un rilievo internazionale assolutamente sproporzionato per il soggetto, che continua ad agitarsi nella più assoluta indifferenza del mondo.

 

Il 22 Febbraio era uscito dal Venezuela ed ora vi ha fatto ritorno perché prima di mandarlo a svernare a Miami, nel magazzino degli oggetti smarriti della CIA, Mike Pence ha ritenuto che non sia ancor giunto il momento di mollare la presa sul Venezuela e, per quanto Guaidò si sia dimostrato un inetto, non c’è tempo di fabbricare un nuovo prestanome. Si fa il pane con la farina disponibile.

 

Per questo Guaidò non ha potuto far altro che tornare in Venezuela a riproporre proclami ai quali nessuno presta attenzione. Del resto, che sia un omino alle prese con un gioco più grande di lui lo testimoniano le figuracce fin qui inanellate. Minacciando, ammonendo, assicurando, offrendo, lamentando e proponendo, ha tentato la spallata al governo diverse volte: il 5, il 10 e il 23 Gennaio e poi il 2 e il 4 febbraio; dovevano essere le date decisive ma sono scorse sul calendario inutilmente, nessuna di esse ha funzionato.

 

Proprio a seguito del fiasco di Cucuta, Mike Pence, il vicepresidente statunitense di note inclinazioni nazistoidi, ha accusato Juan Guaidò di non aver raggiunto il risultato sperato, ovvero la capitolazione del governo bolivariano. Insieme a lui ha accusato anche le famiglie dell’oligarchia venezuelana, colpevoli a loro volta di non aver investito denaro sufficiente nell’operazione, ovvero di non aver speso abbastanza nel tentativo di corrompere le leve più importanti del sistema venezuelano. E, per quanto Guaidò appartenga alla stessa comunità di grembiulini di Abrams e altri dello studio ovale, la pazienza USA è limitata.

 



Il malumore del numero due della Casa Bianca è comprensibile. Era stato proprio Pence ad autointestarsi con una auto intervista la titolarità dell’operazione golpista ed è dunque lui, insieme al quartetto di nazi-evangelisti che compongono il Gabinetto Trump, artefici della politica statunitense nell’emisfero, a raccogliere lo smacco.

 

La questione è ora come uscirne, questo è quello che si chiedono alla Casa Bianca. L’idea di intervenire direttamente è ancora sul tavolo: dichiarare la sconfitta in Venezuela, dopo aver già perso in Nicaragua, è difficilissimo e rischia di innescare forte sfiducia nella destra latinoamericana circa l’efficacia della guida statunitense nell’operazione di riconquista del subcontinente. Già ma come?

 

Un attacco militare è ormai difficile da organizzare: l’isolamento internazionale (il 75% dei paesi non riconosce Guaidò) e l’opposizione decisa di Cina e Russia, India e Iran, Sudafrica e Turchia, l’opposizione dell'ONU, della UE e dello stesso Congresso USA all’utilizzo della forza militare pesano, così come pesa l’impossibilità di controllare dinamiche, svolgimento ed esito di un conflitto che si annuncia tutt’altro che agevole. Sono elementi difficili da ignorare anche per una amministrazione impastata di radicalismo evangelico a tinte nazistoidi.

 

In questo senso non è da scartare l’ipotesi per cui Washington costruisca a tavolino un casus belli utile a giustificare un suo intervento militare diretto: dall’affondamento del Maine al Golfo del Tonchino, alle armi di distruzione di massa in Irak, la Casa Bianca ha sempre mostrato estrema dimestichezza con auto attentati o attacchi mai avvenuti per giustificare l’invio di truppe e bombardieri.

 

Da questa prospettiva è difficile non vedere come le minacce al governo venezuelano relativamente all’incolumità di Guaidò sembrano proprio voler trasformare il finto presidente in un bersaglio di comodo. Ucciderlo e indicare nel governo di Caracas il responsabile sarebbe operazione tipica.

 

Intanto la sola cosa certa è che gli USA dovranno rimpiazzare la quota di petrolio venezuelano che importava (circa il 23% del suo fabbisogno). Acquistarlo ora da altri paesi latinoamericani come Brasile ed Ecuador sembra l’unica soluzione a costi contenuti, prenderlo dal Golfo Persico comporterebbe un ulteriore salasso per il bilancio energetico. Poi, certo, c’è tutto il tema - enorme - del comando politico sul continente, su cui la credibilità interna ed estera dell’Amministrazione ha un severo banco di prova. Ogni giorno in più di pace in Venezuela è un sconfitta politica dell’estremismo nazi-evangelico dell’amministrazione USA.

 

Lo scenario possibile per evitare la ritirata prevede lo scontato proseguimento dell’asfissia economica, finanziaria e commerciale e della pressione politico-diplomatica, nella speranza che cresca un isolamento di Caracas. Parallelamente, visto che le contromisure che Caracas, Mosca, Pechino, Nuova Delhi  e L’Avana stanno approntando ridurrebbero enormemente l’impatto del blocco sulle forniture al Venezuela, l’aggressione statunitense non può non prevedere una iniziativa militare come accelerante di una crisi.

 

A questo scopo un delinquente internazionale come Elliot Abrams è stato ingaggiato dall’amministrazione Trump: per mettere in scena una guerra non convenzionale, alla quale gli USA non prendono parte con i loro effettivi pur essendo registi, finanziatori e dirigenti politici della stessa.

 



Una guerra per procura ispirata all’aggressione terroristica dei contras in Nicaragua durante gli anni  ‘80. Allora in Nicaragua il corpo centrale delle bande terroristiche contras venne garantito dagli ex appartenenti della Guardia Nazionale di Somoza, cui si aggiunsero terroristi cubano-americani, mercenari e centri di addestramento diretti da consiglieri militari argentini ed israeliani. Le retrovie furono compito dei militari salvadoregni ed honduregni ed anche la Costa Rica svolse un ruolo.

 

Oggi in Venezuela si potrebbe sostanzialmente ripetere l’esperimento criminale. In questo caso il corpo centrale potrebbe essere formato dai paramilitari delle AUC colombiane, che del terrore diffuso contro gli inermi sono specialisti riconosciuti, e a costoro si potrebbero aggiungere effettivi latinoamericani e mercenari scampati ad ogni guerra. L’impegno, sia come retrovie che come logistica ed assistenza militare diretta, potrebbero essere a carico di Colombia e Brasile, che così facendo non si ritroverebbero coinvolti con militari loro nell’aggressione e nella sua probabile sconfitta ma sarebbero comunque partecipi dell’operazione così da intestarsi politicamente una eventuale vittoria.

 

Nel frattempo Guaidò continua la recita, immaginandosi in un set dove l’ambientazione è quella di Capitan America ma la sceneggiatura sulla sedia del regista ha come titolo Dead Man Walking.

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