PICCOLE NOTE
“L’esercito israeliano ha poco tempo per portare a termine le sue operazioni a Gaza prima che la rabbia degli arabi nella regione e la frustrazione degli Stati Uniti e di altri paesi per il crescente numero di vittime civili ponga un limite all’obiettivo di Israele di sradicare Hamas, hanno detto questa settimana funzionari statunitensi”. Così l’articolo di testa del New York Times del 9 novembre.
Dello stesso tenore l’articolo di Hamos Arel su Haaretz dal titolo: “Guerra Israele-Hamas: l’IDF [Israel defence force] dice che durerà mesi, i segnali che provengono dagli Stati Uniti non vanno oltre qualche settimane”.
Uno dei segnali è quanto ha dichiarato alla Commissione esteri della Camera Barbara Leaf, vicesegretario di Stato per gli affari del Vicino Oriente, la quale ha detto che il numero delle vittime di Gaza resta incerto e “potrebbe essere addirittura superiore a quello riferito” pubblicamente.
Finora gli USA avevano tentato di diminuire il tragico bilancio, ora addirittura rilanciano (a ragione: tanti sono ancora sotto le macerie e tra i feriti diversi moriranno, anche perché le strutture sanitarie sono state devastate).
Il numero crescente di vittime civili sta scioccando il mondo e diventa sempre più difficile alla leadership occidentale legittimare quanto avviene con il diritto di Israele alla difesa. Reazione eccessiva, sproporzionata e anche poco intelligente quella di Tel Aviv, dal momento che ha seppellito sotto le macerie di Gaza l’ondata di solidarietà globale suscitata dall’attacco di Hamas e la sua immagine internazionale.
La reazione eccessiva è stata ammessa pubblicamente dal portavoce delle Forze di difesa israeliane Daniel Hagari, il quale “parlando della fase iniziale dell’offensiva, ha rivelato che ‘l’enfasi’ della rappresaglia dell’IDF era ‘sul danno piuttosto che sulla precisione””.
L’ammissione di Hagari è stata riportata sul Washington Post del 10 novembre da Ishaan Tharoor, in un articolo in cui, nel riferire i commenti su quanto sta avvenendo a Gaza, spiega che “dietro a tutto questo – e implicito nell’accenno di Hagari riguardante l’”enfasi” sul danno piuttosto che sulla precisione – c’è una dottrina militare che Israele ha adottato da lungo tempo e che sembra sia stata adottata anche in questa circostanza”.
Si tratta della “dottrina Dahiya”, scrive Tharoor, che ha “preso forma sulla scia della guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah in Libano” e che prende il nome dal quartiere di Beirut ridotto in macerie dai jet israeliani in risposta al rapimento di due dei suoi soldati. Una reazione durissima che sorprese Hezbollah, che si aspettava il lancio di qualche missile.
“La dottrina emersa dal conflitto fu articolata nella sua modalità più nota dal comandante dell’IDF Gadi Eisenkot.
“Più o meno nello stesso periodo, l’ex colonnello israeliano Gabriel Siboni produsse un rapporto per l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale dell’Università di Tel Aviv in cui sosteneva che alle provocazioni dei militanti provenienti da Libano, Siria o Gaza fosse necessario dare una risposta basata su attacchi ‘sproporzionati’, che mirano solo in via secondaria a eliminare la capacità del nemico di lanciare razzi o altri attacchi. Piuttosto, l’obiettivo dovrebbe essere quello di infliggere danni duraturi, indipendentemente dalle conseguenze civili, come futuro deterrente”.
“‘All’avvio di un fase di ostilità, l’IDF dovrà agire immediatamente, con decisione e con una forza sproporzionata rispetto alle azioni del nemico e alla minaccia che esso rappresenta”, scrisse. “Una risposta del genere mira a infliggere danni e punizioni in misura tale da richiedere processi di ricostruzione lunghi e costosi”.
“Tale dottrina – scrive Tharoor – sembra che fosse in vigore anche durante una serie di ostilità tra Hamas, che attaccava da Gaza, e Israele tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Un rapporto commissionato dalle Nazioni Unite su quel conflitto, nel quale sono morti oltre 1.400 tra palestinesi e israeliani [questi ultimi furono 14, di cui 4 uccisi da fuoco amico], ha concluso che la campagna di Israele è stata ‘deliberatamente sproporzionata, progettata per punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile, diminuire radicalmente la capacità economica locale sia di lavorare che di provvedere a se stessa e imporre un incombente senso di dipendenza e vulnerabilità’”.
“La dottrina rimase in vigore anche negli anni successivi. ‘I corrispondenti militari israeliani e gli analisti della sicurezza hanno ripetutamente riferito che la dottrina Dahiya fu la strategia adottata da Israele nel corso della guerra di Gaza dell’estate scorsa”, osservò lo studioso palestinese-americano Rashid Khalidi nell’autunno del 2014, quando una nuova campagna militare israeliana provocò la morte di oltre 1.460 civili, di cui quasi 500 bambini. ‘Siamo sinceri: in realtà questa non è tanto una dottrina strategica, quanto lo schema esplicito di una punizione collettiva, foriero di probabili crimini di guerra’”.
“’Non sorprende – aggiungeva Khalidi – che la dottrina Dahiya sia stata poco menzionata nelle dichiarazioni dei politici statunitensi e nelle cronache di guerra della maggior parte dei più importanti media americani, che si sono soffermati solo sulla descrizione delle azioni di Israele come ‘autodifesa’”.
Ciò accade anche per l’attuale guerra, durante la quale, come annota Tharoor, “molti politici israeliani hanno chiesto la distruzione totale di Gaza, lo spopolamento del territorio e persino il reinsediamento di Israele” nella Striscia.
Nessuno in Israele, ovviamente ,”ha esplicitamente invocato la ‘dottrina Dahiya’ come programma per la distruzione scatenata a Gaza”, osserva Tharoor, ma registra che il succitato “Eisenkot è membro del ‘gabinetto di guerra’ di Israele”.
In realtà, non è un membro qualsiasi, infatti egli è alla guida del gabinetto in questione insieme al bellicoso Benjamin Netanyahu e a Benny Gantz (che, pur considerato moderato, nelle elezioni del 2019 promosse la sua candidatura a premier con un video nel quale si vantava di aver fatto ritornare intere aree di Gaza “all’età della pietra” durante la guerra del 2014, nel corso della quale comandava l’IDF).
Insomma, l’attacco fuori registro di Gaza non è dettato solo dalla sete di vendetta, ma da lucida dottrina; o, forse meglio, un combinato disposto di tali elementi, con la “dottrina Dahiya” portata a un livello esponenziale quanto catastrofico.
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