Iraq, il colpo di stato neocon (20 anni dopo)
L’arrivo di Xi Jinping a Mosca è la notizia del giorno, come indicano tanti media d’Occidente, che indulgono in analisi non particolarmente interessanti. Ci limitiamo a ribadire quanto scritto nella nota precedente, cioè che la visita inizia, non a caso, nel giorno anniversario dell’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti (e alleati), evento che ha segnato in maniera profonda la storia recente, dal momento che, al di là degli scopi della campagna militare, aveva un alto valore simbolico, quello di annunciare al mondo l’irrevocabilità dell’unilateralismo americano.
Iraq 20 marzo 2003: i neocon e il ruolo di Biden
Ma aveva anche obiettivi che riguardavano gli equilibri interni all’Impero, dal momento che portò a compimento il colpo di stato dei neoconservatori iniziato nel turbolento post 11 settembre.
Tutto il mondo, infatti, con quell’invasione, si accorse che George W. Bush, che pure era stato eletto per dar corpo a un “conservatorismo compassionevole”, era ormai un burattino nelle mani dei neoconservatori. E con lui il Segretario di Stato Colin Powell, odiato dai neocon per il suo realismo, che dovette dimostrare la sua sudditanza ai nuovi padroni sventolando la funesta fialetta all’antrace all’assise delle Nazioni unite.
Infatti, l’intervento in Afghanistan del post 11 settembre, benché epifanico dell’aggressività dei nuovi padroni dell’Impero, aveva un’impronta diversa, meno unilaterale, come dimostra in maniera simbolica la cooperazione richiesta alla Russia e da questa accettata.
Il corrispondente del Washington Examiner, Jim Antle, in un articolo pubblicato su Responsible Statecraft spiega come il ruolo che ebbe l’allora senatore Biden nel supportare l’aggressione all’Iraq sia stato “sottovaluto”. Infatti, Biden ribadì in più occasioni “la maggior parte delle argomentazioni chiave utilizzate per dare inizio alla guerra: Saddam Hussein come minaccia per i Paesi confinanti, il fatto che attuare un regime-change a Baghdad fosse una priorità per la politica americana, l’esistenza di armi di distruzione di massa e la possibilità che tali armi finissero in mano a organizzazioni terroristiche analoghe a quelle che ci attaccarono l’11 settembre”.
Biden non solo ha supportato l’invasione. Quando iniziarono a emergere critiche all’intervento, ebbe a ribadire: “Alcuni esponenti nel mio partito hanno detto che è stato un errore andare in Iraq”, ma ci sarà un “prezzo da pagare” se la missione non sarà “portata a termine”, aggiungendo che “il presidente degli Stati Uniti è un leader audace e popolare… io e molti altri lo sosterremo”.
En passant, si può ricordare come anche Nancy Pelosi, che ha svolto un ruolo chiave nell’Impero negli ultimi anni in qualità di speaker della Camera, ebbe a dichiarare: “Saddam Hussein ha sicuramente armi chimiche e biologiche. Su questo non ci sono dubbi”.
Ricordiamo tutto ciò solo per ribadire che quella guerra determinò un cambiamento epocale nel cuore dell’Impero: a quanti allora abbracciarono le prospettive e il credo neocon furono spalancate le porte del potere. Gli altri, allora come ora, vennero relegati all’opposizione.
Ciò vale anche per i giornalisti e gli analisti che supervisionarono e supervisionano la narrativa mediatica. Esemplare in tal senso, la parabola di Robert Kagan, co-fondatore del Project for a New American Century, il quale, come ricorda su RS Bob Dreyfuss, collaboratore di The Nation, “nel 1998, scrisse insieme ad altri una lettera al presidente Clinton nella quale si insisteva sul fatto che la rimozione di Saddam Hussein dal potere dovesse essere l’obiettivo principale della politica degli Stati Uniti”. Kagan ha poi “colto l’occasione degli attacchi dell’11 settembre per insistere sul fatto che la guerra al terrore di Bush dovesse comprendere anche il rovesciamento di Saddam Hussein”. Al ruolo chiave dei Kagan nella narrativa dell’attuale guerra ucraina abbiamo dedicato una nota alla quale rimandiamo.
Multilateralismo vs unilateralismo
La digressione sull’importanza epocale dell’invasione irachena serve anche a chiarire come la data scelta da Xi e Putin per il loro incontro non sia affatto una sfida all’Occidente, ma a quel potere che ha preso le redini dell’Occidente in quegli anni cruciali e l’ha conservato finora.
L’Occidente può convivere con la prospettiva multipolare propugnata da Xi e Putin (pur se in una competizione globale), come ha più volte dichiarato Henry Kissinger, l’Impero neocon no. L’unilateralismo che lo connota non può tollerare altro da sé.
Nel summit sino-russo si parlerà dunque un po’ di tutto, dato il conflitto a più livelli in atto, ma uno dei focus è certamente la guerra ucraina, come spiegano tanti analisti. Tanti di essi si dilungano sul piano di pace cinese, che però al momento resta solo una base per avviare le trattative.
Interessante, a tale proposito, la conversazione telefonica, avvenuta prima della partenza di Xi, tra il ministro degli Esteri cinese Qin Gang e il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba, riferita dai media cinesi. Kuleba “ha osservato che il documento della Cina sulla soluzione politica della crisi ucraina dimostra la sua sincerità nel promuovere il cessate il fuoco e la fine del conflitto. E ha espresso la speranza di mantenere le comunicazioni con la Cina” (Indian Punchline).
Purtroppo, la Casa Bianca, per bocca del portavoce per la sicurezza nazionale, John Kirby, ha rigettato la proposta, spiegando che un cessate il fuoco è inaccettabile, sarebbe come accettare le attuali conquiste dei russi.
Il niet di Washington è molto significativo: per rispondere subito e in maniera così decisa, vuol dire che ha percepito il rischio che la proposta cinese di un cessate il fuoco potesse essere accolta.
Guerra per procura “fino all’ultimo ucraino”
L’intervento nervoso della Casa Bianca rivela come a decidere della guerra e della pace non sia l’Ucraina, come dichiarano con ossessione gli esponenti politici americani, ma Washington. Dopo l’intervento di Kirby è ormai inoppugnabile che si tratta di una guerra per procura contro la Russia fatta sulla pelle del popolo ucraino.
Al di là del particolare, si può rilevare la disconnessione delle motivazioni addotte da Kirby per dare una forma plausibile al rigetto di una proposta tanto umanitaria quanto sensata; il cessate il fuoco non dà e non toglie nulla a nessuno dei due contendenti: serve solo ad aprire uno spazio alle trattative.
Così, non solo le trattative, ma l’idea stessa che possano esserci trattative è rigettata con sdegno. La lotta continua.
A margine, si può annotare che Xi è giunto a Mosca nel giorno in cui si concludevano i lavori della Seconda conferenza internazionale Russia – Africa, che ha visto volare a Mosca le delegazioni parlamentari di 40 Stati africani, nella quale, oltre a dibattere dei rapporti dei problemi del continente dimenticato e i suoi rapporti con Mosca, si è preparato il terreno per il vertice Russia-Africa previsto per il prossimo luglio, al quale parteciperanno i Capi di Stato dei Paesi interessati. La Russia è isolata, secondo la narrativa ufficiale. Non troppo, sembra. E certo, la coincidenza tra l’assise e l’arrivo di Xi non è affatto casuale. La prospettiva di un mondo multipolare prende forma.