La farsa degli accordi di Tripoli

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La farsa degli accordi di Tripoli


di Antonio Pertuso 

 

Nel panorama scontato e privo di riflessioni dell’informazione italiana sulla visita del Presidente del Consiglio Meloni in Libia due articoli, entrambi apparsi su “L’Antidiplomatico” hanno fornito un minimo di salutare controcanto:

 

Poiché la questione delle forniture energetiche dalla Libia è un tema di vitale importanza per l’Italia è bene rimanere in argomento e correggere per primo alcune imprecisioni ed errori.

Gli otto miliardi del titolo di Severgnini non sono fondi che vanno (anzi, andrebbero) alle milizie ma investimenti in impiantistica per lo sviluppo di un giacimento marino di gas.

In realtà, come vedremo in seguito, questi fondi non si materializzeranno mai, perché gli accordi firmati a Tripoli sotto gli occhi della Meloni non sono che una farsa, una commedia degli inganni dove ciascuno sa di mentire, per la sua parte, e che gli altri pure mentono, ma non sa bene in che cosa mentano.

 

Per il resto l’indignazione di Severgnini è davvero legittima, lo schiavismo migratorio ha una causa politica ma conviene approfondire meglio anche le dinamiche economiche.

Per inquadrare la situazione, è bene chiarire con chi l’ENI ha firmato gli accordi, il governo di Abdelhamid Dabaiba. L’esecutivo che risiede a Tripoli ha, sì, la “benedizione” dell’ONU, e perciò la “legittimità” internazionale.  In sostanza, però ha l’appoggio più che altro di USA, Turchia, e Qatar, oltre che della Fratellanza Mussulmana, con poi al rimorchio, come di consueto e per quel che ancora contano, di EU e dei franco-inglesi. Viceversa non ha la fiducia del popolo libico, non controlla che un fazzoletto del paese, solo il 20%, circa, e non controlla i giacimenti terrestri di idrocarburi.

Per contro, il governo di Fathi Bashagha, quello con sede a Bengasi, ha avuto la fiducia di un parlamento regolarmente eletto dai libici, ha dalla sua il sostegno dell’esercito regolare libico, controlla la gran parte del territorio ed ha il controllo dei pozzi. Gode, invece, di minori appoggi internazionali: quello dell’Egitto, soprattutto, della Russia, che in Libia non ha tuttavia un ruolo determinante, e della Lega Araba.

Il governo di Dabaiba non dispone di un vero esercito regolare e deve ricorrere perciò alle milizie, che però non può pagare, perché le esportazioni e la produzione di idrocarburi libici sono ai minimi termini, al punto che la produzione di gas locale è insufficiente a coprire i consumi della Libia ed in particolare della Tripolitania. Proprio questa è stata, infatti, la risposta che la NOC, la compagnia di Stato libica, controllata dal governo di Tripoli, ha dato all’ENI che cercava di ottenere forniture addizionali, per tentare di rimpiazzare rapidamente il gas russo. Senza altri introiti, le milizie tripoline si sono dunque date al “commercio di transito”, il taglieggiamento, cioè, e la tratta dei nuovi schiavi, i migranti.

La produzione e le esportazioni libiche sono molto ridotte per due motivi.

Il primo è che, come detto, tutti i giacimenti di gas e petrolio sono sotto il dominio del governo di Bengasi, che però, a causa dell’embargo imposto dall’ONU, non può esportare direttamente se non attraverso la NOC ed il governo di Tripoli. Dopo aver dovuto infatti constatare che dei proventi delle esportazioni non arrivavano che delle briciole, per non continuare a farsi taglieggiare, il governo di Bashagha ha dunque interrotto l’estrazione sia del gas che del petrolio.

Il secondo motivo è più strutturale: l’embargo alle esportazioni libiche decretato dall’ONU, riducendo fortemente gli introiti della NOC, non ha permesso di fare investimenti e mettere a coltivazione giacimenti conosciuti e ricercarne di nuovi. Tuttavia, non è che le possibili e probabili riserve terrestri di idrocarburi, gas e petrolio, siano esaurite, tutt’altro. Ci sono e sono ancora molto abbondanti, basta solo investire – ma non sono necessari grandi investimenti – e trivellare. Per fare tutto ciò occorre però, come è ovvio, che ci sia una soluzione politica alla crisi libica.

Quello di Gabellini è un pezzo che ha il pregio di smontare il trionfalismo dell’informazione a diffusione di massa ed almeno cerca di fornire un minimo di inquadramento storico, politico ed economico della situazione libica – da lui definita un caos – anche in relazione alle forniture di gas naturale. I maggiori appunti che gli si possono muovere – a parte un’imprecisione, per il vero ininfluente, sulla capacità del gasdotto dalla Libia, otto miliardi di m3/anno teorici e non sei – sono due, la mancata menzione del ruolo determinante della Russia di Putin nel precipitare la Libia nel “caos” e soprattutto il suo adeguarsi al mito appunto del “caos” e della guerra tra fazioni libiche, senza prendere in alcuna considerazione le questione di legittimità per mandato popolare tra i due contendenti: per Gabellini, tutto preso dalle sue analisi e considerazioni di politica e strategie internazionali, il governo di Bengasi e le sue forze militari sono “la fazione di Haftar”. Per il resto, possiamo ben dire che, senz’altro, lo scetticismo di Gabellini è fondato. Gli accordi di investimenti siglati dall’ENI a Tripoli alla presenza del Presidente del Consiglio Meloni paiono infatti essere essenzialmente volti a colpire con il sensazionale e l’immaginifico – la produzione di idrogeno da fonti rinnovabili e la cattura e stoccaggio di anidride carbonica in linea con l’obbiettivo di decarbonizzazione che si è dato l’Eni, ad esempio – e non ad altro. Per ottenere tre miliardi di m3/anno di gas non ci sarebbe, infatti, alcun bisogno di mettere in produzione le strutture A ed E, i giacimenti marini di gas non convenzionale (e con costi di estrazione più alti), che hanno fatto oggetto dell’accordo principale per il gas siglato da Claudio Descalzi, AD di ENI. Da subito, o almeno in poco tempo e soprattutto con investimenti minimi per la riattivazione dei pozzi, si potrebbero pompare verso l’Italia fino sei miliardi di metri cubi di gas in più.

Che senso ha investire otto miliardi di dollari per sviluppare e mettere in produzione un giacimento con riserve di gas accertate per 6 mila miliardi di piedi cubici quando la Libia ha già riserve accertate ed inutilizzate per 53 mila miliardi di piedi cubici (oltre a riserve sempre accertate di petrolio per 48 miliardi di barili)? Che senso ha estrarre gas da giacimenti non convenzionali con costi di produzione molto superiori rispetto a quelli terrestri? Perché non investire nella ricerca di nuove riserve terrestri probabili e possibili – da aggiungere a quelle accertate, pure molto abbondanti – per di più in zone già ampiamente note, con costi di prospezione ridotti e che in Libia è noto possono essere ancora molto prolifiche? Perché non ampliare la capacità del gasdotto dalla Libia, visto che costerebbe molto meno degli otto miliardi di investimenti firmati a Tripoli dall’ENI di Descalzi? Il gasdotto dalla Libia, il “Greenstream” è lungo 520 Km: considerando un costo medio al Km di un milione di dollari, sarebbe un investimento di mezzo miliardo di dollari. Supponiamo anche che il costo sia il doppio perché le condotte devono essere posate a grandi profondità – fino a 1200 mt sotto il livello del mare e la Saipem del gruppo ENI è tecnicamente in grado di farlo. Diciamo dunque un miliardo di dollari. Perché investire otto miliardi quando si potrebbe ottenere in tempi più brevi, con un solo miliardo di dollari, un ampliamento di capacità tale da sopperire del tutto al mancato apporto del gas russo al mercato italiano, circa 15 miliardi di m3/anno? Infine, se si volesse pensare anche al fabbisogno dell’intera Europa, circa 28 miliardi di m3/anno di gas venuti a mancare con le sanzioni alla Russia, perché, ad esempio, non proporre la Libia ed anche l’Algeria come snodo di transito per gasdotti, ma anche oleodotti, dall’Africa sub-sahariana, dal Sudan Meridionale, dalla Nigeria, dal Congo ed altri paesi pieni di gas e petrolio che non trovano sbocco commerciale? Stendere condotte in zone disabitate ha un costo per Km molto basso e si convoglierebbero ingenti risorse in molti di quei paesi da cui provengono la maggior parte dei migranti economici che si affidano agli scafisti per cercare di attraversare il Mediterraneo. Perché, dunque, lanciare investimenti multi miliardari, quando con molto meno si potrebbe fare molto di più?

Quando le incongruenze sono così evidenti, è chiaro che da qualcuno è stato violato il principio di verità. In tal caso il dubbio non solo è legittimo, ma anche doveroso. Le ipotesi alternative che si possono formulare, quando la malafede è palese, non sono cospirazionismo, ma un giustificato strumento per giungere alla verità.

In primo luogo, per aumentare le esportazioni di gas e petrolio libico basterebbe, infatti, abolire l’embargo sancito anni fa dall’ONU e di anno in anno rinnovato. A tal fine, è ovvio, occorre che ci sia un governo legittimo in Libia e per fare questo occorre partire da un principio di realtà e da un criterio di legittimità. Il principio di realtà impone di riconoscere che il “caos” libico, delle fazioni e delle differenti milizie cosiddette tribali nasce da vicende storiche plurisecolari.  La Libia, come la conosciamo oggi, fu assemblata così dall’Italia in territori con culture ed ideologie completamente diverse e non può che essere uno stato federale con ampia autonomia tra le tre diverse regioni del paese, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Si pensi ad esempio che dalla riforma di Diocleziano queste regioni erano separate: la Tripolitania era parte dell’Impero Romano d’Occidente, la Tripolitania di quello d’Oriente ed il Fezzan, il regno dei Garamanti, soggiogato dal console Lucio Cornelio Balbo nel 20 a.C. (che arrivò fino al fiume Niger), era sì tributario di Roma, ma sostanzialmente indipendente. Una tripartizione del paese che sostanzialmente continuò sia sotto il dominio arabo che ottomano. L’unica alternativa ad una tripartizione federale dello Stato potrebbe d’altronde essere solo il ripristino di un regime centrale autoritario come quello della dittatura di Muammar Gheddafi, una restaurazione che nessuno in Libia sembra auspicare, nemmeno il figlio stesso di Gheddafi.

In merito al criterio di legittimità, dopo un decennio di guerre civili occorre prendere atto che quello di Tripoli, pur con il sostegno dell’ONU, non è il governo voluto dai libici, ma soprattutto riconoscere che i compromessi politici da cui scaturiscono le delibere dell’ONU originano da momentanei rapporti di forza e non possono pertanto essere fonte primaria di legittimità. L’unico altro principio di legittimità conosciuto dalla modernità – al di fuori dell’autorità di diritto divino, in ambito islamico quella califfale – è quello della sovranità popolare stabilità tramite libere elezioni. In base a tale principio, pertanto, basterebbe riconoscere che l’unico parlamento libico nato da libere elezioni e quindi con un autentico mandato popolare è quello di Bengasi, che ha dato la propria fiducia a Bashagha. Questa sarebbe, dunque, la soluzione più semplice ed immediata. In alternativa, e magari per trovare conferme della volontà popolare, si potrebbero lasciar indire nuove elezioni, con ogni possibile controllo internazionale, ovviamente. Perché, dunque, non farlo? Perché non se ne parla? Semplicemente perché tutti sanno che a vincere sarebbero i sostenitori del governo di Bengasi, con l’appoggio del gen. Haftar. Soprattutto, però, perché si sa che da nuove e libere elezioni, il consenso, oltre che alle liste del gen. Haftar, con grande probabilità in parte andrebbe anche al figlio Muammar Gheddafi, Seif, che è molto popolare in Libia ed in particolare nel Fezzan. Il riemergere di Seif Gheddafi a distanza di soli dodici anni circa dalla morte del padre è tuttavia inaccettabile per gli USA ed i franco-inglesi. È ancora una vicenda troppo recente e non tutta l’opinione pubblica ha dimenticato le bugie che erano state propagate per giustificare la detronizzazione di un dittatore, su iniziativa dei francesi, principalmente, e dei britannici, con il sostegno del presidente Obama, la resa di Berlusconi (come scrive Gabellini) – il quale, però, inizialmente aveva tentato di evitare l’aggressione militare alla Libia – e senza dimenticare il tradimento di Putin che non sostenne al momento opportuno l’Italia e diede infine il suo non gratuito nulla-osta all’invasione della Libia (in cambio, del riconoscimento alla Gazprom di quote dei giacimenti libici). Ricordiamo anche l’inutile e vile tirassegno degli aerei NATO, quando la totale impotenza delle difese aeree libiche era sotto gli occhi di tutti, la successiva depredazione di un paese, consegnato poi all’ISIS, a partire dall’assalto al consolato USA di Bengasi e la morte – un anno dopo – di un ambasciatore americano abbandonato da Hilary Clinton perché scomodo testimone del traffico di armi con i terroristi jihadisti – in funzione antirussa – ed i loro complici turchi. Troppi sanno ancora infatti di chi fu la responsabilità di una vicenda che costituì l’inizio di una mai finita destabilizzazione della Libia (e poi del resto del mondo con il golpe anti russo nel 2014 di piazza Maidan a Kiev).

Per tutti questi motivi del ripristino del governo legittimo e del principio della sovranità popolare o di nuove libere elezioni in Libia proprio non se ne può parlare.

Insomma, gli accordi firmati dall’ENI a Tripoli nascondono ben altro e si sa già che rimarranno carta straccia.

A prescindere da qualsiasi altra considerazione, sul campo, la situazione militare sta per precipitare e le milizie di aiuto-schiavisti che sostengono l’esecutivo di Tripoli stanno per cedere. Entro la primavera il governo con cui la Meloni è andata a parlare e coi cui Descalzi ha siglato gli accordi cadrà.

Il punto vero, dunque, è che il governo italiano ha puntato sul cavallo sbagliato perché mal consigliato dall’ENI, che qualcuno si ostina a pensare sia ancora la compagnia di riferimento degli interessi nazionali, come ai tempi di Enrico Mattei. Oggi, l’ENI è altra cosa. Anche se l’investitore pubblico, Ministero del Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti, detiene circa il 30 % del capitale, l’ENI di Descalzi non persegue finalità pubbliche, ma segue altre logiche, quelle dei fondi di investimento che detengono circa il 54% delle quote. Ovviamente non ci sono fogli d’ordine, ma il meccanismo è semplice: la remunerazione dei vertici delle aziende quotate in borsa è legata all’andamento del titolo. È evidente, fuori da ogni ipocrisia, che Descalzi per suo proprio tornaconto sarà portato a perseguire le direttive non del Tesoro, ma gli umori e le linee guida dei mercati finanziari, cioè dei grandi fondi d’investimento, come, ad esempio Blackrock, Vanguard e State Street, perché questi ed altri fondi simili, con la propria massa critica ed essendo interconnessi tra di loro mediante partecipazioni incrociate, muovendosi di concerto, possono causare un ribasso o un rialzo di valore delle azioni. Nello specifico, se, per esempio Blackrock ed altri fondi impongono indici ed investimenti ESG, le aziende che non si adeguano li vedranno disinvestire dal titolo con un crollo delle quotazioni e sacrificio della remunerazione dei vertici aziendali.

Questa è la ragione per cui Descalzi a Tripoli si è speso soprattutto per i progetti “green” (idrogeno, rinnovabili, cattura della CO2 ecc.) e per lo sviluppo di un giacimento marino, poco conveniente e che tanto non si farà mai. La sua premura è che l’ENI sia in linea con i criteri di “decarbonizzazione” previsti con la ESG, cioè Ecologia, Sostenibilità (ambientalista) e Governance mondiale – vale a dire il Programma della cupola di Davos, del WEF. L'Eni non garantisce l'autonomia italiana col patto di Tripoli, come, invece ha dichiarato Descalzi, anche perché l’ENI, come s’è visto, non è italiana. Non cerca di sviluppare nuovi giacimenti ai costi più bassi possibili perché questo confligge con l’obbiettivo della “decarbonizzazione”. Soprattutto la politica industriale dell’ENI è l’esatto opposto delle strategie di Enrico Mattei ed è cioè di pieno appoggio alle multinazionali petrolifere anglo-franco-americane.

Quella di pochi giorni fa a Tripoli è stata una farsa e Descalzi lo sapeva. A chiunque è chiaro che non ha senso investire otto miliardi per produrre gas da giacimenti in mare quando si potrebbe facilmente e senza alcun investimento far ripartire la produzione da giacimenti terrestri molto più economici.

È una farsa anche perché tra non molti mesi in Libia ci sarà un nuovo governo anche a Tripoli e gli accordi firmati oggi saranno carta straccia.

È una farsa perché se anche i giacimenti marini entreranno mai in produzione non sarà prima di tre anni, mentre per il fabbisogno italiano il gas occorre adesso, tra pochi mesi quando, con la fine dell’inverno bisognerà ricostituire le scorte e mancheranno almeno da dodici a diciotto miliardi di metri cubi di gas annuali.

La farsa finirà in un flop, ma non per Descalzi, che invece avrà conseguito il suo obbiettivo, fare gli interessi di Blackrock Vanguard e degli altri fondi.

Il flop sarà per l’Italia e per il governo, che non sarà in grado di assicurare al paese il fabbisogno di gas ed in generale di idrocarburi e di energia.

Il flop sarà anche di Giorgia Meloni. Su di lei ci si può porre una serie di domande. Perché è andata a Tripoli a trattare con un governo sostenuto dalle milizie tripoline complici degli scafisti e non anche a Bengasi? Perché lei, con la sua storia, non si è espressa per la fine dell’embargo alla Libia, visto che finisce per favorire lo schiavismo migrazionista? Soprattutto, però, come ha potuto la Meloni non accorgersi della farsa e farsi accompagnare in Libia da Descalzi?  Come ha potuto non capire che l’ENI ed “i mercati finanziari” non hanno affatto a cuore il bene dell’Italia e quindi l’approvvigionamento di energia e soprattutto metano a basso costo. La “patriota”, molto probabilmente è in buona fede, ma al dunque si è dimostrata troppo “responsabile” ed anche troppo prudente e dopo decenni di opposizione troppo intimorita dai poteri forti per imprimere un vero cambiamento all’Italia

Forse dobbiamo prepararci ad un prossimo giro di giostra. 

 

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