L'euro e il Covid

1980
L'euro e il Covid

 

La mia posizione è sempre stata che, in linea generale, di fronte a una pandemia come quella che stiamo vivendo, non è vero che si debba giocoforza scegliere tra salute e sopravvivenza economica. 

 

Un “normale” paese avanzato dotato della sovranità monetaria ha infatti a disposizione tutti gli strumenti economici per evitare che un temporaneo “congelamento” dell’economia si trasformi un tracollo economico e sociale, per il semplice motivo che un blocco dell’economia non comporta una distruzione di beni capitali (e dunque una distruzione di capacità produttiva), a differenza di una vera guerra, per riprendere una metafora che abbiamo sentito spesso in questi mesi, né una crisi sul lato dell’offerta di beni di prima necessità, dato che le catene di approvvigionamento degli stessi possono tranquillamente rimanere in funzione, come abbiamo visto; comporta piuttosto una semplice crisi di liquidità, ovverosia un calo di quegli uni e zeri (altresì noti come soldi) sui conti correnti delle famiglie e delle imprese. 

 

Va da sé, infatti, che quegli uni e zeri sui conti correnti possono essere tranquillamente portati al livello desiderato – per esempio al livello a cui si assesterebbero in tempi “normali” – con un semplice clic da parte del governo, in collaborazione con la banca centrale, in modo da evitare fallimenti, bancarotte e altri effetti collaterali della chiusura, e da ripartire, una volta passato il lockdown, più o meno nelle condizioni in cui si era prima del blocco. Certo, vi sarà necessariamente un temporaneo crollo del PIL, ma a questo seguirà, una volta “riaperta” l’economia, un rapido ritorno ai livelli pre-crisi, proprio perché non c’è stata una distruzione di capacità produttiva. 

 

Attenzione: stiamo parlando di ciò che è *tecnicamente* possibile in questi paesi; è perfettamente possibile – ed infatti è stato così praticamente ovunque – che i governi, per innumerevoli motivi che non staremo qui ad approfondire, *scelgano* di mettere in campo meno risorse di quello che sarebbero necessarie. Ma trattasi appunto di una scelta politica, che può e deve essere oggetto di una dialettica politica, non di un vincolo tecnico. 

 

In questo senso, da un punto di vista strettamente economico (altro discorso sono le ricadute psicologiche, su cui non ci soffermeremo in questa sede), non ci sarebbe nessun motivo, in un paese “normale”, per osteggiare lockdown o chiusure temporanee con l’obiettivo di abbassare la curva dei contagi, chiedendo contestualmente misure adeguate di sostegno all’economia, nella consapevolezza che il governo dispone di tutti gli strumenti necessari per attuarle. D’altronde, laddove queste strategie sono state attuate con rapidità e decisione, hanno permesso un rapido contenimento del virus e una altrettanto rapida ripresa dell’economia (vedi la Cina e altri paesi asiatici). 

 

Il problema – e qui veniamo a noi – è che l’Italia, ahinoi, non è un paese normale. Nonostante la temporanea sospensione delle regole di bilancio europee e il fatto che la BCE si è vista, sempre temporaneamente, obbligata ad agire come una “vera” banca centrale, la politica di bilancio degli Stati dell’eurozona, e in particolare dell’Italia, rimane tutt’ora vincolata sia da limiti “reali” – ovverosia la natura temporanea degli interventi della BCE e dunque la reticenza dei governi ad accumulare un debito “eccessivo”, in previsione di un ritorno, già annunciato, delle “normali” regole di bilancio –, sia da limiti “psicologici”, soprattutto per quello che riguarda la classe dirigenza italiana, ovverosia il terrore reverenziale di assumere qualunque decisione che possa essere giudicata negativamente dalle istituzioni europee (come per esempio uno “stimolo fiscale” superiore al limite massimo tacitamente consentito). 

 

D’altronde lo stesso Giuseppe Conte, non più di due settimane fa, ha dichiarato che l’Italia non può “permettersi” un altro lockdown – per quanto questo (ha fatto intendere lo stesso Conte) sarebbe l’unico modo per abbassare realmente il numero di morti giornalieri, che rimane drammaticamente alto – perché «non siamo la Germania» e «non abbiamo tutti i suoi soldi da mettere sul tavolo» per indennizzare le attività costrette a chiudere di nuovo, in virtù del debito pubblico già troppo alto dell’Italia. Parole che non hanno alcun senso in termini assoluti – se l’Italia avesse una propria banca centrale, o se la BCE fosse una vera banca centrale, l’Italia potrebbe tranquillamente “permettersi” di fare tutto il deficit di cui avrebbe bisogno, indipendentemente dai suoi livelli di debito –, ma che invece acquisiscono una loro drammatica verità nel contesto dell’euro. Tanto per capirci: negli USA si sta discutendo di dare un assegno mensile di 2.000 dollari a (quasi) tutti i cittadini; da noi una misura di questo tipo sarebbe semplicemente inconcepibile. 

 

Non è un problema solo italiano. Tutti i paesi dell’eurozona, ad eccezione della Germania, hanno realizzato uno stimolo fiscale nell’ordine, in media, del 5 per cento del PIL, a fronte di uno stimolo fiscale che in tutti i paesi avanzati non-euro si è assestato intorno al 10-20 per cento del PIL. Questo dimostra che, nei fatti, il vincolo dell’euro continua a limitare pesantemente i margini di manovra economici dei paesi dell’eurozona, e dunque la loro capacità di rispondere adeguatamente alla pandemia, a prescindere dalle azioni della BCE e dalla temporanea (appunto) sospensione del Patto di stabilità. 

 

Ora, tutto questo era facilmente prevedibile fin dall’inizio della pandemia. In altre parole, era facilmente prevedibile che il nostro paese non sarebbe riuscito a reperire le risorse necessarie per salvaguardare al contempo sia l’economia che la salute dei cittadini, ma sarebbe necessariamente stato costretto a trovare una posizione di compromesso tra i due obiettivi. 

 

In questo senso, mi è sempre risultata irricevibile sia la posizione dei tifosi del lockdown “senza se e senza ma”, indipendentemente da una riflessione più ampia sul contesto istituzionale in cui si trova il nostro paese e dunque dalla nostra capacità di mettere in campo misure compensative adeguate – quelli cioè per cui le (inevitabili) conseguenze economiche e sociali del lockdown (che oggi conosciamo ma che erano, come detto, facilmente prevedibili) sono da considerarsi sempre e comunque giustificate in nome della “salvaguardia della salute”; trattasi infatti di un concetto che espresso in questi termini non ha alcun senso: qual è la caduta del PIL e la contrazione della capacità produttiva (che ha ovviamente ricadute anche in termini di vite umane) che è giustificata in nome della salvezza di un numero x di vittime da virus? Il 5%? Il 10%? Il 100%? –, sia la posizione di Confindustria et alia, che chiedevano di riaprire tutto dopo aver però difeso per anni quella stessa architettura istituzionale che oggi ci impedisce di rispondere efficacemente alla pandemia. 

 

La nostra posizione come “Italexit con Paragone” è infatti sempre stata quella di un “sostegno condizionato” alle chiusure – condizionato cioè precisamente alla messa in campo di misure di sostegno adeguate. Ai tempi del primo lockdown abbiamo voluto essere ottimisti, e infatti abbiamo chiesto che venisse istituito subito un “reddito di pandemia”, simile a quella messa in campo da diversi paesi, nell’ordine di 1.000 euro per ogni cittadino, pur sapendo che una misura di questo tipo difficilmente sarebbe stata “tecnicamente” fattibile, data l’attuale cornice istituzionale. E infatti non è stata realizzata. 

 

E anzi abbiamo assistito, con il passare dei mesi, a una crescente incapacità del governo di difendere le famiglie, i lavoratori e le imprese colpite dalle chiusure. Con il risultato che oggi, secondo i dati di Confcommercio, sono oltre 300.000 le imprese che sono state costrette a chiudere per via dell’emergenza sanitaria e di tutte le conseguenze che ne sono derivate, restrizioni e chiusure obbligatorie (non adeguatamente compensate) incluse. Nel frattempo, secondo i dati della Caritas, nel 2020 l’incidenza dei “nuovi poveri” è passata dal 31 al 45 per cento; tra le categorie più colpite piccoli commercianti e lavoratori autonomi. 

 

Questi numeri ci raccontano una palese verità: quella tra salute ed economia è una falsa dicotomia anche dal punto di vista delle ricadute sociali, giacché dall’“economia” dipende la vita – e la salute – delle persone. Con buona pace dei deliri da Facebook di chi pensava, con il lockdown, di sferrare un colpo al “capitale” e alla “logica del profitto”. La verità è che la logica del profitto se la passa benissimo: infatti i profitti delle grandi imprese multinazionali del web sono esplosi. 

 

Alla luce di tutto ciò, continuare a tifare per la logica delle serrate è semplicemente criminale, tanto quanto la posizione chi chiede di riaprire tutto fregandosi dei morti per COVID. Nascondersi dietro la foglia di fico del “bisogna rimanere chiusi MA anche offrire un sostegno adeguato alle famiglie e alle imprese colpite” è diventato inaccettabile, nella misura in cui è ormai chiaro che quelle risorse in parte non si vogliono trovare, è vero, ma in parte, in virtù dei vincoli dell’euro, non si possono effettivamente reperire, se non a costo di mettere in discussione tutta l’architettura della moneta unica, qualcosa che evidentemente questo governo non ha nessuna intenzione di fare. 

 

Dunque, se da un lato noi continueremo a portare avanti la nostra lotta per portare l’Italia fuori dalla gabbia dell’euro – la causa di fondo di molti dei nostri problemi, inclusa l’incapacità di gestire efficacemente la pandemia –, dall’altro ci rendiamo conto che, nel breve, stante l’attuale architettura istituzionale, la cosa migliore è permettere la riapertura dei locali pubblici che dimostrano il rispetto della normativa anti-COVID (igienizzazione, distanziamento, mantenimento degli standard di sicurezza e contingentamento dei posti a sedere ecc.). Insomma, "se ci chiudi ci paghi", ma "se non ci puoi pagare allora ci fai aprire". 

 

Come dicevamo, l’unica soluzione, nel contesto in cui troviamo, è trovare un compromesso tra attività economica e contenimento del virus, soprattutto se consideriamo che con il virus dovremo probabilmente convivere ancora per molto tempo. Non è forse la soluzione ideale, ma è l’unica che, in questo contesto, ci possiamo permettere, se non vogliamo che la pandemia sanitaria si trasformi in una pandemia economica dalle conseguenze ancor più gravi. Se non fossimo nell’euro sarebbe diverso. Ma nell’euro, per ora, ci siamo. E faremmo bene a essere consapevoli dei vincoli che ci impone: non c'è scelta peggiore, infatti, che difendere (più o meno direttamente) quei vincoli e allo stesso tempo far finta che non esistano. Se quei vincoli non vi piacciono, allora unitevi a noi. #Italexit 

 

[Le posizioni qui espresse sono unicamente del sottoscritto e non rappresentano una presa di posizione ufficiale del partito]

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